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SCRIVEVA qualche giorno fa Aldo Carra che in una democrazia degna di questo nome il sistema elettorale dovrebbe rappresentare la garanzia e il suggello dei suoi due presupposti: quello della massima rappresentanza delle istanze – tutte – presenti all’interno della società; quello della partecipazione. Rimuovere uno o entrambi di questi presupposti significa modificarne l’essenza e il carattere. L’impressione che ne ricava chi, come il sottoscritto, ha trascorso gran parte della sua vita in una fabbrica, non può non notare come proprio dal mondo del lavoro sia cominciato quel lavorio – fatto di un mix di tatticismi e accelerazioni – che ha, come fine non dichiarato, il tramonto del modello di democrazia così come lo avevamo conosciuto a partire dal Secondo Dopoguerra. Ossia quel modello che, nato all’indomani della sconfitta del nazifascismo attraverso una doppia convinzione aveva disegnato una democrazia che garantisse, attraverso la rappresentanza e la partecipazione, la coesione e la crescita sociale. Una democrazia fondata – per dirla in italiano – sul lavoro, con il suo portato di dignità e di diritti. Acquisizione, quella della democrazia sul lavoro come compimento della democrazia politica, frutto di lotte e mobilitazioni straordinarie, che conobbero momenti d’indicibile dramma, come lo fu la guerra, e come lo furono quelle straordinarie mobilitazioni che portarono, all’inizio degli anni settanta del secolo scorso, alla nascita dello Statuto dei lavoratori. L’incontro tra democrazia rappresentativa e dignità del lavoro quindi come connubio fondante e che, non a caso, era stata la preoccupazione, solo fino a pochi mesi fa, anche di tanti rappresentanti della pseudo sinistra… almeno fino all’irrompere sulla scena dell’acuirsi della crisi e della inaugurazione delle larghe intese.
Non è un caso che il connubio venga prima messo in discussione col varo del governo Monti sull’accelerazione dell’acquisizione delle ricette di austerità imposte dall’Europa, poi definitivamente seppellito dallo scellerato patto del Nazareno che, di là dai tatticismi renziani, tiene (teneva?) insieme riforma elettorale, riforma del lavoro e accordo sul Quirinale.
Jobs Act e Italicum, dunque, come continuazione di quella distruzione del modello avviata dalla messa in discussione del sistema di diritti e tutele del lavoro: temi di cui oramai è diventato proibito il solo parlarne. E non è un caso che proprio la legge elettorale proposta prefiguri un sistema nel quale sarebbe gravemente mutilata e forse del tutto eliminata la rappresentanza d’interi settori sociali, consegnandoci un Parlamento estraneo ai disastri e alle drammaticità prodotte dalla crisi economica e finanziaria in corso. Questi riformisti nostrani – gli stessi che hanno trasformato Province e Senato in istituzioni a-democratiche e avulse da qualsiasi legittimazione popolare – che provano a spiegarci come deve funzionare una democrazia delegata. Una democrazia o è partecipata o non è.
Una demolizione – quello del sistema di rappresentanza e del suo aggancio con la dimensione politica e sociale del lavoro – che ha portato, di fatto, a un preoccupante e inaccettabile ritorno al passato, lontano dall’insegnamento con cui Di Vittorio invitava i lavoratori a non levarsi il cappello davanti ai padroni. E tutto questo troverebbe un sigillo drammaticamente definitivo se il patto del nazareno venisse portato a compimento.

*Senatore Sel

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