X
<
>

Condividi:
6 minuti per la lettura

di FRANCO LARATTA
Sw si chiede alla gente comune quale tipo di trattamento riservare ai carcerati, una grande maggioranza risponderebbe «il peggiore possibile», o anche «dategli solo pane e acqua». La massa non scende mai nei particolari, ragiona per istinto, fa prevalere la voglia di vendetta, chiede per gli altri il peggio.
La visita che ho compiuto nelle carceri calabresi durante il weekend di Ferragosto, non ha aggiunto nulla a quanto io non avessi già visto e costatato nelle altre diverse visite fatte da quando sono parlamentare. Carcerati ammucchiati come polli in batteria, anzi come migliaia di vermi nello stesso metro quadro di terra, letti a castello in stanzette afose e caotiche, umanità diverse e disparate costrette e vivere gomito a gomito, gli stranieri sempre più numerosi, gli ultimi della società soli con la loro disperazione. Tuttavia, ogni volta il carcere è diverso. Non faccio mai visite generiche o superficiali, mi piace parlare uno a uno con tutti i detenuti. Lo faccio perché vedo che loro hanno bisogno di parlare, di essere ascoltati, di raccontare e chiedere qualcosa. In quel pianeta sconosciuto che è il carcere, la pietà non trova posto, ma non mancano segni di solidarietà. Tuttavia, vorrei dire a chi non immagina nemmeno, di provare a vivere in una cella di pochissimi metri quadri con altre 6-7 persone, del tutto estranee una con l’altra, protagonisti di drammi umani spaventosi. Stare appiccicati uno all’altro, omicidi e stupratori, spacciatori e ladri, violenti e truffatori, non è facile. Al contrario, è una questione spaventosa. A Cosenza, dove il carcere è decente, ben tenuto, si vive tutti così: ammucchiati come bestie in uno stanzino che a casa nostra non fungerebbe nemmeno da sottoscala. Ma vivere in un mucchio cancella ogni individualità, qualsiasi gesto intimo, svuota le illusioni, rende simili ad animali in gabbia. Il carcere è una brutta bestia, una condanna terribile per chi ha commesso brutalità e violenze spesso inenarrabili. Ma la gente, ad esempio, non sa che la grande maggioranza di coloro che scontano in carcere la pena, torna a delinquere, e prima o poi ritorna in carcere. Al contrario, la grande maggioranza di coloro che invece del carcere sconta la pena con misure alternative al carcere stesso, non ritorna più dietro le sbarre, perché riesce a inserirsi nella società. Il carcere, se ne deduce, trasforma l’uomo, lo rende più violento e cattivo. L’esatto contrario della funzione costituzionale che dovrebbero avere gli istituti di pena. Perché il carcere, facendoti scontare la pena con la privazione di ogni forma di libertà ( una pena quindi terribile!) Ha come sua prima funzione quella di rieducare il detenuto, di fargli capire l’errore commesso, e insegnarli a non ripeterne più. In sostanza: punito per il delitto commesso, il detenuto riprova ad essere uomo vero, libero, rispettoso della legge e degli altri. Tutto questo non accade più nelle carceri italiane. Che sono tutte superaffollate (perfino con il doppio dei detenuti consentiti, quasi sempre con oltre il 50% in più del previsto), violente, disumane. La violenza che subiscono dietro le sbarre i detenuti, ad opera di altri detenuti, è un’ulteriore pena, anzi una tortura psicologica insopportabile e anche una violenza fisica inaccettabile. Ecco, accade di tutto dietro quelle sbarre. E il costante aumento del numero dei detenuti che si suicida, lo dimostra ampiamente. Il carcere infatti è morte: negli ultimi 6 mesi si sono registrati un centinaio di morti (35 per suicidio)! Più che carceri, dovremmo definirle ‘gironi infernali’. Un inferno fatto di violenza, droga, sopraffazione, vendetta. Un inferno che in questi giorni , circa 150 parlamentari abbiamo visitato, sporcandoci direttamente le mani, entrando a stretto contatto con la disperazione e l’odio. Proporrei una norma che consenta a tutti gli uomini di governo e ai parlamentari di trascorrere una settimana all’anno nella carceri, nelle celle con gli altri detenuti. Poi magari lo estendiamo ai centri di permanenza per gli extracomunitari e i clandestini (perché questi sono ora divenuti più mostruosi delle stesse carceri). Ai cittadini consentirei una ‘visita guidata’ a un istituto di pena e inviterei a leggere ‘Carceri’, un libriccino del reggino Franco Marra, coinvolto in una drammatica indagine giudiziaria, dalla quale ne uscì assolto, del comune di Reggio. Arrestato, finito in una cella, racconta le sue carceri. Erano gli anni ’80. Quella lettura fu per me come un trauma! Vorrei poi ricordare che una grande parte dei detenuti è rappresentata da ragazzi giovanissimi, poco più che ventenni. Mi chiedo: quando quei ragazzi avranno scontato la pena, che cittadini saranno? La società non ha forse tutto l’interesse che siano uomini e donne da reinserire con facilità? O forse non sa che in queste condizioni, la gran parte di loro tornerà rubare, spacciare, delinquere? Il carcere quindi deve essere reinventato. Le pene vanno scontate interamente, perché chi commette reati non se la può cavare con una pacca sulle spalle. Però, il carcere non può essere più una prigione che violenta la coscienza ed il corpo dei detenuti. Facendogli toccare il fondo, facendoli sentire bestie respinte e bastonate a sangue. E questo accade regolarmente, tenuto anche conto che dalle carceri sono quasi scomparse le figure degli educatori e degli psicologici. A Cosenza, su 6 educatori in pianta organica per 288 detenuti, ce ne sono solo 2, ci sono poi 2 psicologici in convenzione e nessuno previsto in dotazione organica. L’ultimo tentativo di capire e aiutare chi è nell’angoscia è stato così cancellato. Lo Stato si è arreso. Nella corso della mia ultima visita alle diverse carceri calabresi, ho visto un giovane detenuto che studiava attentamente in una saletta. Chiedo di entrare e gli parlo. Si è laureato in Legge in carcere ed ora sta specializzandosi. Ha commesso un omicidio, ha ancora un bel po’ di anni da fare, eppure mi ha detto: ‘sto pensando al mio futuro’. Un solo caso, uno solo, su migliaia di detenuti che ho incontrato, una fiammella in un buio pesto. Una fiammella che non va spenta. Pensavo: e se nelle carceri tutti avessero la possibilità di studiare, di imparare un mestiere, di lavorare, quante ore sarebbero sottratte a quelle celle afose e schifose, in cui l’unica attività è quella di odiarsi e sputarsi addosso tutto il peggio che ognuno di noi si porta dentro? In un altro carcere noto un signore sui 45-50 anni in solitudine, assente, dal volto cupo. A differenza degli altri non si agita per la mia visita al carcere, non chiama, non chiede attenzione, non sembra interessato a niente di quello che sta accadendo. È solo con la sua angoscia che traspare e si avverte anche da lontano. Mi avvicino, provo a parlargli. Niente. Gli chiedo: ‘quanto tempo dovrai restare ancora qui dentro’? Alza lo sguardo spento e mi dice a bassa voce: ‘Non uscirò mai. Ho avuto l’ergastolo’. Un caso di ‘fine pena mai’. Anche lui, come il ragazzo che si è laureato in legge, ha commesso un omicidio. Il ragazzo uscirà da avvocato e tornerà a vivere appena scontata la pena. Il secondo uscirà solo dentro a una bara.

Condividi:

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

EDICOLA DIGITALE