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di BATTISTA SANGINETO
Il Presidente della Repubblica ha pronunciato, sabato scorso, parole dure e gravi sulla classe dirigente del Mezzogiorno d’Italia. Ha detto che il ceto dirigente meridionale ha fallito talmente tanto che «nell’ insieme è tale da farci dubitare che le forze dirigenti meridionali abbiano retto alla prova dell’autogoverno. Non possiamo nascondere inefficienze e distorsioni dietro la denuncia delle responsabilità altrui e, soprattutto, dietro le responsabilità dello Stato e dei governi». Il Presidente ha precisato, rivolgendosi a chi ha governato e governa le regioni del Sud, che il loro bilancio «è a dir poco insoddisfacente» ed ha auspicato, quindi, che «emergano nel Mezzogiorno nuove forze idonee a meglio affrontare la prova dell’ autogoverno e della partecipazione al governo del Paese». Parole pesanti, parole pesanti e dure come pietre. La durezza delle parole dovrebbe colpire i politici meridionali ancor di più perché vengono da un meridionale e da un ex-comunista che tanta parte della sua vita ha speso per il riscatto di queste terre. Queste parole dovrebbero pesare, come macigni, sugli eredi delle lotte contadine, delle occupazioni delle terre, degli emigrati per miseria perché sono loro che governano, alcuni da molti anni, le regioni del Sud. Napolitano, con la delusione di chi ha speso la vita in favore dei deboli e degli ultimi, ha detto loro che non sono in grado di governare alcunché, ma sono capaci solo di scaricare le proprie innumerevoli responsabilità sullo Stato centrale e sui governi. Il Presidente, che ben conosce le ormai misere capacità delle classi dirigenti meridionali, avrebbe dovuto dire, però, che non c’è alcuna possibilità di riscatto che possa partire dal Sud. Non si può sperare, purtroppo, che emerga una classe dirigente degna di questo nome perché la cosiddetta “società civile”, dalla quale dovrebbe scaturire la nuova classe dirigente, è lo specchio opaco di quella politica. La scaturigine del problema è rappresentata dai meridionali, dalla società meridionale e calabrese perchè fra gli abitanti di queste terre prevale l’egoismo individuale, l’individualismo disinteressato al bene comune che è reso palese dall’incapacità di collaborare, di mettersi insieme per un qualsiasi progetto collettivo. Nella società meridionale è diffusa una violenza che origina, forse, dall’impasto di arcaicità e post-modernità di cui sono composti i rapporti sociali, familiari, economici e politici. Relazioni che conducono alla incapacità di governare ed alla diffusione dei comportamenti mafiosi. Per intraprendere, per produrre -in un contesto economico depresso, assistito ed atomizzato- è necessario consociarsi, trovare padrini politici, creare partiti trasversali per poter accedere ai finanziamenti pubblici o, più modestamente, per ottenere un “posto”. Per procurarsi tutto questo si ricorre all’uso perverso delle sovrastrutture ereditate dalla cultura meridionale come la famiglia, la parentela, i rapporti interpersonali basati sull’amicizia e sul reciproco e rituale scambio di favori e di beni. Ed è in questo passaggio che il diritto alla cittadinanza si trasforma in clientela e sudditanza, diventate, ormai, componenti psicologiche strutturali del calabrese, del meridionale. Il presidente, sulla base di quanto ha inequivocabilmente detto, dovrebbe, una volta accolte le auspicabili dimissioni dei presidenti di tutte le Regioni meridionali, commissariare la Calabria e tutto il Sud, per almeno una generazione, al fine di consentire che si formi un nuovo ceto dirigente. Sono sicuro che Giorgio Napolitano è in grado di nominare uno stimabile e capace Commissario per ogni Regione ed anche, se ve ne fosse bisogno, un Commissario straordinario per il Mezzogiorno.

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