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di GIUSEPPE ROMEO
Ci sono alcuni aspetti della vita del Paese che in questi ultimi giorni nella giungla delle dichiarazioni e delle intenzioni politiche rischiano di trascinarci verso una deriva istituzionale. Un’incredibile e caotica visione del mondo delle istituzioni attraverso la quale ogni forza politica, e alcuni leader a loro dire senza onta, sembrano o non conoscere gli assetti del Paese sui quali si costruisce la nostra seppur immatura e fragile democrazia o dimenticarli a proposito, presi come sono dai loro orizzonti personali. Ma non solo. A ciò si aggiunge, man mano, l’aspetto locale che, nostro malgrado, viene a ridipingere la prime pagine dei giornali solo di fronte all’ennesima tragedia che coinvolge le popolazioni meridionali. Al di fuori di questo il Mezzogiorno non ha quartiere se non in una strumentale prospettiva partigiana che non si addice a chi dovrebbe guardare in maniera complessiva alle sorti del Paese di cui il Sud, e la Calabria nella sua periferica dimensione, è un’area imprescindibile per affermare almeno un minimo senso di comunità nazionale, di comunità politica. Ebbene, con queste premesse, e non nuovi a commenti di tale tenore, credo che a molti sia sfuggito l’articolo apparso sabato scorso su un quotidiano nazionale (Corriere della Sera, pag. 8 n.d.a) nel quale l’autore, valutando la possibilità di una corsa a due con l’Udc, sottolineava di quanto per il centrodestra – nella necessità soprattutto odierna di confermare il risultato delle politiche del 2008 – sia importante conquistare alle prossime regionali almeno tre regioni del Centro Sud. Tre regioni indicate nella Campania, Lazio e Puglia. Regioni, queste ultime, che insieme alla Sicilia sarebbero sufficienti per affermare in caso di successo, e consolidare se così fosse, l’ampio consenso di cui dispone il PdL e, con questo risultato, il presidente del Consiglio. Ciò significa, senza ombra di dubbio, che nelle previsioni di vittoria il risultato conseguibile dal centrodestra in Calabria è da considerarsi assolutamente trascurabile nell’economia politica complessiva per la formazione del dato politico che si vorrebbe dimostrare: il pieno, perdurante consenso maggioritario dell’esecutivo in carica. Ma con buon disincanto di chi scrive e di molti calabresi, tutto questo, comunque, non è una novità. E’ solo l’ennesima conferma che la Calabria per il centrodestra che conta, come per il centrosinistra delle precedenti elezioni politiche ed amministrative, non ha appeal politico. Essa è, e resta, solo un contenitore di voti laddove la conquista della Presidenza della Regione Calabria non è pari al peso politico nazionale che può avere ottenere la Presidenza del Veneto, della Campania, del Lazio, della Puglia o della Sicilia. Possiamo credere a tutto e farci convincere che non è così. Ma è evidente, per il grado di poca indipendenza dalle dinamiche di partito di chi si propone alla guida della regione, che le sorti della Calabria sono poste in bilico tra un concreto disinteresse politico del centro verso questa periferia politica della nazione e la capacità di cooptare localmente almeno un utile consenso attraverso facili protagonismi da sommare ad un risultato che comunque maturerà altrove. Per il Partito Democratico, avulso da sempre dalla nostra realtà, non avendo al momento valide alternative, il successo è affidato alla capacità del presidente uscente, unico candidato ad oggi che ha chiaro come condurre una nuova campagna elettorale, come ricostruire un sistema di relazioni politiche molto allargate capaci di garantirgli un margine sufficiente per vincere. Un presidente uscente che è consapevole, questa volta, che non potrà più contare sul significativo distacco dall’avversario più accreditato del centrodestra come avvenuto nelle precedenti amministrative. Per il centrodestra, in caso di vittoria, quanto meno si tratterà di realizzare le aspettative di ciò che resta di una leadership romana di An discesa al Sud che nel successo politico del proprio candidato gioca la sua partita politica “fuori casa”. Una partita a cui affida la propria sopravvivenza cercando di evitare l’ultima resa dei conti con la maggioranza forzista tentando di difendere più se stessa che un partito che non c’è. Un partito, Alleanza Nazionale, persosi nelle nebbie di un soggetto unitario costruito senza preavviso e partecipazione, se non di “ritorno”, diradatosi man mano negli animi e negli interessi a favore di un partito apparentemente comune, con code autonomiste le cui strategie di successo sono ancora oggi fortemente ancorate ad orizzonti molto milanesi e assolutamente puntuali nel ridurre al minimo nel resto del Paese ciò che rimane della destra di un tempo. Una dimensione politica, quella nazionale, di un centrodestra parziale, meridionalista quanto basta e quando serve, in Campania e Lazio, quanto in Sicilia per debito ieri e credito oggi. Tutto questo al di là di ogni apparenza possibile dimostrando che, ancora una volta, i destini e i non destini di questa regione, della Calabria, si giocano su altri tavoli nei quali essa è solo un’opzione utile ma non essenziale.

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