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di ROMANO PITARO
Butti giù la maschera e dica parole di verità. Ha la maturità per farlo: 150 anni nel 2011. L’Italia, che al Sud guarda con la benevolenza pelosa di una nobildonna che fulmina con gli occhi uno zingarello cencioso, se non vuole che l’ampollosa ricorrenza si riduca a una farsa, consegni le sue scuse alla Calabria. Segnatamente alle Serre calabresi, che, tramortite dall’abbandono, speravano in un po’ di luce dalla Trasversale, incompiuta da 43 anni. Le colonne in ghisa di Mongiana, borgo di 800 anime che vive di forestale, sono ciò che rimane della borbonica “Regia Ferriera” le cui officine spaziavano in un’area di 2 chilometri. La più grande acciaieria d’Italia prima che l’Italia nascesse. Il baricentro della siderurgia del Regno delle due Sicilie ammazzato dall’Unità d’Italia che si prepara a festeggiare il fatidico compleanno. Un tormentone sta diventando, in un’Italia lacerata da salvacondotti ad personam e dalla “paura” concimata per accrescere il consenso, la ricorrenza del 2011. Più s’ insiste nel proporla, più fa un effetto strano. Se questo Paese è rotto nei fatti, a che serve la magna celebrazione di un’Unità solo apparente? Quali obiettivi deve conseguire l’austero Comitato insediato per ideare eventi? Risposta evanescente: ribadire l’importanza dell’Unità, declinare l’abnegazione dei patrioti e – vedrete che andrà cosi – i pregi o i difetti della Costituzione repubblicana che seguì (specie se nel 2011 Berlusconi sarà ancora al suo posto). Ma se si volesse dare sostanza culturale all’appuntamento, lo scopo numero uno dovrebbe essere la presa di coscienza dell’odierno “gap” Nord/Sud che azzoppa il Paese in Europa. Come si fa? Anzitutto chiedendo scusa a chi dall’Unità ha subito un torto. La ricorrenza come occasione per ricordare una ferita mortale e per attenuare la recriminazione di migliaia di italiani condannati dall’Unità a emigrare. Dunque, iniziamo cosi: c’erano una volta le Ferriere nelle Serre… Si disse, nel 1861, per giustificarne la decapitazione, che in futuro gli altiforni della siderurgia dovessero sorgere in pianura. Le rotaie delle miniere delle Serre furono vendute a peso. Nacque l’acciaieria di Terni ma, guarda caso, sui monti. Ci furono proposte: al Governo dell’Italia liberale gli operai delle Serre offrirono di ridursi la paga e supplicarono attenzione. Ci furono proteste: il tricolore sotto i piedi, no al referendum per l’annessione, l’assalto alla sede della Guardia Nazionale, si formarono due bande, le donne in piazza al grido di “Viva don Ciccio” (Francesco II) e la bandiera bianca con i gigli. Ci furono partenze: Stati Uniti, Canada, America Latina. Veniva soppressa, di punto in bianco, dall’Italia di Cavour e di Vittorio Emanuele II, un’industria risalente ai fenici che dava lavoro a 3000 persone. Annientato un polo industriale di cui oggi rimangono soltanto le rovine. Lì fu realizzato il fucile da fanteria modello Mongiana. Lì videro la luce i primi ponti sospesi in ferro d’Italia, il “Real Ferdinando” sul Garigliano e il “Maria Cristina” sul Calore. Ora, un’Italia che non intenda banalizzare la ricorrenza del 2011, e dopo un secolo e mezzo di silenzio sul clamoroso scandalo con cui l’Italia appena fatta mostrava a questa parte del Sud il volto peggiore, si spera che si torni a parlare del triangolo industriale (Mongiana/Stilo/Ferdinandea) della penisola italiana che sorgeva nell’area oggi più emarginata del Paese (Nardodipace è il paese più povero d’Italia). In tutto questo tempo, della realtà industriale di Mongiana è stata cancellata ogni traccia. Eppure in questa parte della Calabria, definita il cuore spirituale del Mezzogiorno, le pagine di storia non sono mancate. Il 13 ottobre 1852 Ferdinando II, con 12mila soldati alloggiò nelle Serre. Diretto a Mongiana, dove c’era la Reale Ferriera cui davano impulso le Officine di Pietrarsa dopo gli interventi di modernizzazione decisi da Re Bomba che a Mongiana aveva spedito i migliori mineralogisti sassoni e ungheresi per formare gli operai. Lì il borbone andava a visitare la sua nuova fabbrica d’armi e la ferriera che consentiva al Regno di essere autonomo nella produzione di armi e di vantarsi di un’opera eccellente. Al punto che lo zar la fece riprodurre identica in Russia, inaugurando le Officine di kronstadt. Mongiana: per arrivarci dall’Angitola c’è un’ora di curve moleste. Le Serre oggi sono un deserto sociale colpito da una micidiale emigrazione e punteggiato dai cantieri fantasma della Trasversale. Ma c’è stato un tempo in cui, prima che giungesse Garibaldi, le Regie Ferriere davano di che vivere a tutti gli abitanti della zona. Prima dell’Unità, il polo siderurgico calabrese era una realtà industriale d’interesse internazionale. La prima ferrovia del Regno delle due Sicilie, la Napoli-Portice, inaugurata nel 1839, si fece con il ferro di Mongiana. In quell’area si concentravano le ferriere di Stilo, Pazzano e Mongiana, e nel 1769 fu creato, al centro delle Serre, lo stabilimento siderurgico di Mongiana. “Dalle Serre – documenta lo storico Augusto Placanica – il ferro, fucinato e lavorato, con produzione fra l’altro di fucili e cannoni per l’esercito, veniva portato alla marina di Pizzo, e di qui avviato per mare ai mercati d’assorbimento”. Con i Borboni, le ferriere calabresi fecero parte del piano della metallurgia voluto da Ferdinando IV e furono il mercato più generoso per l’occupazione serrese. Tutto finì con Garibaldi. Sbarcato in Calabria e salendo lungo la costa tirrenica, sostò a Pizzo e da lì inviò 1370 uomini comandati dal capitano Antonio Garcea con l’ordine di occupare Mongiana, “requisire lo stabilimento, la fabbrica d’armi, così importante per l’economia di quella marcia verso Napoli”. Qualche innocua fucilata e la resa dei 25 borbonici a guardia di Mongiana. Cessavano di esistere le ferriere con la nascita dell’Italia liberale. “L’antica isola d’industria mineraria che – scrive lo storico Pietro Bevilacqua – in età borbonica aveva prodotto quantità rilevanti di materiale ferroso entrò in crisi a causa delle scelte economiche dei Governi liberali che ebbero in Calabria conseguenze anche immediate. L’industria mineraria fu indubbiamente quella che per essere legata alle commesse governative sentì più repentinamente gli effetti della nuova situazione”. La corposa denuncia di De Stefano/ Matacena è scolpita nei numeri della massiccia emigrazione che si ebbe nelle Serre, specie alla fine dell’Ottocento. “Lo Stato unitario privilegiò subito la componente piemontese-ligure. Il nuovo Governo favori spudoratamente la siderurgia ligure, tant’è che l’Ansaldo, che prima del 1860 contava la metà dei dipendenti di Mongiana, a Italia fatta li raddoppia, mentre, allo stesso tempo, sono dimezzati quelli del Meridione. Se oggi il Sud è degradato e diverso dal Nord si deve molto a quella lontana concezione di unità”. Parole di fuoco pronunciò Nicola Zitara, meridionalista calabrese, su quella “strage” che lo Stato appena nato fece in Calabria: «L’Unità d’Italia ha tutt’altro che occidentalizzato il Mezzogiorno. L’unificazione del mercato nazionale gli ha spezzato le reni». Migliaia di famiglie sul lastrico. Un’industria d’interesse strategico per il Regno delle due Sicilie fu cancellata con un tratto di penna. E un’area della Calabria condannata all’inedia e alla fuga. Ancora nel 1861 la “Real Ferriera” è premiata all’Esposizione industriale di Firenze e nel 1862 all’Esposizione industriale di Londra, ma lo Stato italiano la butta via. Ebbene, il torto fatto oggi s’intende riconoscerlo e cercare di ripararlo? L’occasione è propizia. Lo Stato chieda scusa alle Serre calabresi e, anziché buttare soldi in convegni, organizzi la riproduzione più verosimile degli antichi stabilimenti per farne un’attrazione turistica e un polo culturale con annesso museo multimediale. Si completi, da qui al 2011, nominando un commissario nella figura di un prestigioso prefetto cui assegnare poteri straordinari, la Trasversale delle Serre, simbolo di uno Stato non liberista o colbertista, bensì arruffone e senza nerbo. Si ridia l’opportunità di riprendere il filo della memoria alle Serre e la possibilità ai suoi abitanti di sentirsi non più figli di un’Italia minore.

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