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di PIERANGELO DACREMA

E’ possibile stabilire un nesso tra l’economia (un certo tipo d’economia) e la felicità (un certo tipo di stato d’animo)? Esiste un vasto filone di studi sulla cosiddetta “Economia della felicità”. Il precursore è stato l’economista e demografo Richard Easterlin (accanto a Tibor Scitovsky), e Daniel Kahneman è il loro più recente e noto continuatore. Ora, non sembra il caso di scomodare uno scienziato per arrivare a illustrare il principio, diventato quasi un proverbio, per cui il denaro non fa la felicità (anche se aiuta a vivere meglio). Eppure bisogna ammettere che rimangono piuttosto interessanti alcune conclusioni in merito al rapporto esistente tra livello del reddito e dei consumi da un lato e livello della soddisfazione personale dall’altro.
Il punto centrale del lavoro pioneristico di Easterlin – quello che ha aperto il dibattito sul “paradosso della felicità” – è la constatazione che, nel corso della vita, la felicità degli individui pare dipendere ben poco dalle variazioni del reddito, e quindi anche della ricchezza. Ciò sembra poter mettere in dubbio una regola economica mai scritta, ma neanche mai seriamente messa in dubbio, come quella per la quale, in economia, “più” è (necessariamente, quasi ovviamente) meglio di “meno”. In termini più espliciti, esistono dei fenomeni di adattamento che vanificano ben presto la soddisfazione procurata da una maggiore agiatezza. È come se, economicamente parlando, ci trovassimo su di un tapis roulant (treadmill). Camminando, le nostre gambe si muovono e fanno il loro dovere, eppure non ci spostiamo (proprio come accade in palestra quando corriamo sul tapis roulant). Kahneman illustra due effetti tradmill, l’hedonic treadmill e il satisfaction tradmill. Il primo si riferisce al fatto che, quando il nostro reddito aumenta e, per esempio, acquistiamo un’automobile più bella e confortevole, la percezione del nostro maggior benessere di esaurisce nel giro di pochi mesi, fino al momento in cui interviene un meccanismo psicologico di ‘adattamento edonico’. L’impatto della novità viene assorbito e a bordo della grande Mercedes viviamo sensazioni non dissimili da quelle che ci offriva la piccola FIAT.
Il satisfaction tradmill, un effetto di ordine più generale rispetto al precedente, fa sì che l’incremento del mio reddito abbia accresciuto il complesso delle mie esigenze e che la mia felicità – per definizione soggettiva – non sia aumentata nonostante il miglioramento oggettivo della mia condizione (per tornare all’esempio, nonostante che la mia nuova berlina sia davvero più comoda e abbia prestazioni oggettivamente migliori di quella della mia vecchia utilitaria). Ora, questi rilievi, da una parte, sembrano non segnalare alcunché di nuovo: è nota da tempo la regola del beneficio marginale decrescente associato al possesso di una maggiore quantità di qualsiasi cosa, anche del denaro, e si sa che la seconda casa è meno importante della prima così come che la dodicesima camicia è destinata a procurare meno soddisfazione dell’undicesima. Dall’altra parte, tuttavia, queste analisi si prestano a una serie di riflessioni interessanti.
E’ chiaro come il concetto di povertà cambi, così come quello di ricchezza, per cui diventerebbe facile spiegare il motivo della mia frustrazione se, a un certo punto, diventassi l’unico, nell’ambito di una comunità più o meno vasta, a non permettersi l’acquisto di un televisore al plasma. È evidente come tutti tendano a confrontarsi con il vicino di casa, e come sia possibile diventare poveri continuando a guadagnare la stessa cifra in un contesto in cui tutti gli altri si arricchiscono. Certo, meno spiegabile sembrerebbe il mio scontento il giorno in cui, dopo che un aumento del reddito mi avesse consentito di farmi installare una graziosa e agognata piscina davanti alla mia altrettanto graziosa villetta, dovessi scoprire che, appunto, proprio il mio vicino se ne è fatta costruire una grande il doppio. Ci sarebbe infatti qualcosa di poco razionale nel lasciarmi spazzar via, così velocemente e impunemente, un incremento di benessere ottenuto con pazienza e fatica. Eppure le cose stanno così. La razionalità economica vacilla davvero di fronte a sentimenti come l’invidia o la rivalità e all’accentuazione degli effetti “posizionali” delle possibilità individuali di consumo. È il motivo per cui consumare a sufficienza diventa meno interessante del consumare più degli altri, e ancora lo stesso per cui la gratificazione associata a un aumento di stipendio viene annichilita dalla notizia che lo stipendio del vicino (ancora lui) è aumentato di più.
Del resto, vi è scarsa razionalità anche nell’atteggiamento, piuttosto diffuso, di spendere tempo ed energie – accettando il costo di lavorare sempre di più – per poter ottenere beni relativamente lussuosi la cui capacità di accrescere la “felicità” di chi li ha acquistati è destinata a scemare ben presto. Si investono risorse preziose in ciò che vale poco – oggetti che non riescono a riempirci la vita e ad appagare i nostri più profondi desideri – e le si sottrae sistematicamente a tutto quanto meriterebbe investimenti più attenti e cospicui: all’amicizia, all’amore, alla famiglia, a ciò che più scalda il cuore (alla cosiddetta “felicità”). Possibile che gli uomini riescano a essere così poco razionali da non capire dove stia il loro vero benessere? Forse ha ragione chi sostiene che non basta un difetto di razionalità per spiegare gli effetti a cui è abituata la nostra società dei consumi. (Forse gli uomini, per quanto eccentrici ed esitanti appaiano nelle loro decisioni e nei loro comportamenti, non sono così insensibili a temi delicati come il loro intimo appagamento e la loro pace interiore).
Può essere vero che il modello economico attuale renda più costosi, e più preziosi, i beni relazionali di cui si ha un reale bisogno – quelli che vanno da un tipico bene di creatività come la musica classica dal vivo, oggi costosissimo, alla coltivazione di amicizie autentiche, nella nostra epoca assai impegnative e dispendiose di energie -, e che trovi quindi una giustificazione plausibile sul piano razionale il maggior tempo passato davanti alla TV o all’ascolto dell’iPod. Può essere, di conseguenza, che una modernità ben conscia della nostra fragilità ci abbia voluto più autonomi, più soli ma anche più indipendenti dagli altri, defraudati di rapporti umani non superficiali e però arricchiti dalle merci e dalla moneta messe a disposizione dei mercati. I mercati si sa, danno e prendono. Quanto al denaro, anche questo si sa, alla fine si rimane soli con lui.

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