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di SARA LORUSSO
POTENZA -Alle guardie giurate e ai collaboratori stretti di Palazzo di città è bastato un cenno della testa. Sì, i consiglieri comunali che alla spicciolata stavano raggiungendo l’aula delle commissioni di piazza Matteotti lo avevano saputo. Lo sapeva già buona parte della città.
Anna se ne era andata la notte prima, in un letto d’ospedale, protetta tra le mura dell’Hospice del San Carlo e dalla mano di un uomo che era suo marito, non il sindaco di questa città.
Lo sapeva l’edicolante, lo sapeva il presidente della Regione, lo sapeva quel signore che tutti i giorni prende il caffè al bar della piazza. L’attività istituzionale si ferma, il posto da raggiungere è lontano dal centro, è la cappella dell’ospedale dove Anna riceverà le preghiere di una folla immensa di gente. Di Anna Palese, poco più che cinquantenne, si è spento il respiro. E la sua battaglia contro un male terribile (il suo cruccio, sempre il pensiero dei due figli da non voler lasciare) si è fatta, ieri mattina, sconfitta dell’intero capoluogo. Era la moglie del primo cittadino, una vita insieme, praticamente almeno trent’anni. La città, indirettamente, la conosceva. E in un posto come questo, così piccolo, diviso tra provincia e anima metropolitana, la dimensione personale non si allontana molto dalla vita pubblica. In un posto come questo, in cui ciascuno sa di tutti almeno un po’.
Quanta gente, ieri, nella cappella, a salutare lei, a sostenere lui. Il via-vai si fa così intenso fin dalla mattinata che ai vigili urbani tocca ordinare l’ingresso della auto nel piazzale. In due, alta uniforme della polizia locale, picchettano l’ingresso. E’ l’onore che il corpo concede al suo diretto referente, è la protezione di un silenzio che di privato non conserva molto. A Vito il sindaco, in tanti porgono un saluto. Politici, rappresentati istituzionali, colleghi amministratori, compagni di un viaggio che in questa città, prima in Provincia, poi al Municipio di città, dura da oltre 10 anni. A Vito il marito e padre, l’abbraccio di amici e parenti. Eppure quanti in quel silenzio sono arrivati da persone comuni. E lui saluta tutti, occhi lucidi, stretto nel giaccone che sembra di due taglie più grande. Per tutti ha il tempo di un sorriso abbozzato, di un grazie sussurato. Poco più tardi, quando la controra svuoterà, ma solo di poco, la cappella, si concederà qualche battuta in più. «L’adoravano», dice. I suoi due figli, Leonardo e Francesco, entrambi ancora studenti, sono accanto alla mamma, nella bara, al centro della sala. Con loro gli amici e le cugine. Si allontanano solo raramente, e non più di qualche metro. Ancora gente da salutare e ringraziare. «Lo so», dice, rispondendo ai «mi dispiace». Ed è sincero.
Perché in qualche modo era già successo. Poco più di un anno fa quando della malattia di Anna si era scoperto all’improvviso. E lui, consapevole del suo ruolo pubblico, non aveva nascosto la notizia che, sapeva, avrebbe comunque viaggiato veloce. In aula, allora, ai colleghi consiglieri aveva chiesto scusa, «devo andare in ospedale», dopo il primo intervento, la prima tappa della scalata di Anna. Poi il grazie all’ospedale, di cui aveva testato – aveva detto orgoglioso di essere «sindaco e cittadino» – la professionalità. Giurava di non sostare oltre l’orario consentito, nessun privilegio.
Quello che non diceva è che comunque non ce ne sarebbe stato bisogno. Lì, al San Carlo, Anna era di casa, puericultrice per anni, coccolata dalle colleghe fino all’ultimo, protetta. Quante volte Vito lo ha detto nei giorni scorsi, quante volte ha raccontato la tenerezza e la premura dei medici e delle infermiere, dei volontari dell’hospice, quel posto dove la speranza si fa lieve e la dedizione di chi ci lavora è un sollievo per tutti.
Gli abbracci di sostegno e il braccio sulle spalle dei figli. A lungo, spesso, mentre in città non si parlava d’altro e nei luoghi dell’istituzione comparivano decine di manifesti di cordoglio. Oggi l’ultimo saluto, nella chiesa Don Bosco. I fiori, i biglietti, i telegrammi, le parole.
Continuava – come i suoi ragazzi – ad accarezzarle il volto. Non ha smesso un attimo il ruolo che riveste, non ha chiesto mai tempo ulteriore, conciliando viaggi, attese, incontri. E pensare che – diceva spesso ironizzando sulla fitta agenda istituzionale – le vacanze, quei pochi giorni d’estate, erano tarati sui turni della moglie. Anna amava, smodatamente, la famiglia e il suo lavoro. Lontano dai riflettori e dalle occasioni mondane. L’ultimo passaggio pubblico, durante la visita del presidente della Repubblica Napolitano, nel capoluogo, in nero, per il discorso nel teatro Stabile. Per qualche attimo al braccio del marito che solo sei mesi fa, aveva raggiunto la piazza principale, da sindaco, rieletto, di questa città.
Era giugno e l’estate non era che cominciata. Al telefono, con la bottiglia da stappare, nella sfilata in piazza tra i colleghi, Vito non aveva mai slegato le dita da un fascio di ginestre. Si dice, fossero le preferite di Anna.

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