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di VINCENZO PIZZONIA
Egregio direttore, ciò che lei ha scritto nell’articolo” La Calabria che frana e le colpe delle classi dirigenti” apparso sul Quotidiano della Calabria di domenica 14 febbraio, è quasi interamente condivisibile. Ci sono tre cose che vorrei commentare in particolare. La prima è che il suo è il lamento di un innamorato della Calabria e cioè il grido di chi appartiene ad una schiera limitatissima di calabresi. I calabresi non amano la Calabria. Sostenendo questa tesi nella conferenza regionale del 1984 sul tema “Il territorio come risorsa per lo sviluppo e nella lotta alla mafia”, il professor Scandone così la motivava: «Accettano che la loro terra vada in malora; accettano che nell’area sismicamente più pericolosa d’Italia, lo Stretto di Messina, poco o nulla sia stato fatto per garantire, o almeno tentare di salvaguardare la sicurezza della gente, accettano che frane ed alluvioni portino via strade e paesi, perché ciò rientra nelle «catastrofi naturali»; accettano che nulla si faccia quando il mare inghiotte interi tratti di spiaggia, e al tempo stesso lasciano mano libera alla speculazione edilizia più sfrenata, quella speculazione che ha già coperto irrimediabilmente di cemento la costa tirrenica» e la costa ionica “ …e accettano il saccheggio delle risorse naturali”. La seconda affermazione è quella con cui lei sostiene che il fallimento è sicuramente delle classi dirigenti, di chi governa, dalla Regione alle Province ai Comuni, ma anche di una mentalità che presuppone che il territorio nel suo complesso sia altra cosa da sé, riguardi gli altri e sia un nostro bene esclusivo pur essendo patrimonio della comunità”. Verissimo. E qui lei si ritrova ancora a fare parte di una minoranza di calabresi, che vede sente e parla, ma non ha alcuna capacità di incidere su un sistema perverso che si rafforza invece di indebolirsi. Poco meno di 60 anni fa, lo stesso Augusto Placanica che lei ha citato, attribuiva ad alcuni elementi negativi, sorti dall’humus della stessa società calabrese, le ragioni del fallimento dell’imponente processo messo in moto negli anni ’50 dallo Stato, con gli interventi straordinari per la Calabria indirizzati a fronteggiare i problemi dello “sfasciume pendulo sul mare” e a mettere in sicurezza il territorio. L’endemico permanere della Calabria, sosteneva Placanica, “ai livelli di una economia assistita e dipendente, aveva favorito la formazione di un ceto intermedio “parassitario” a forte connotazione politica, capace di provocare e intercettare i finanziamenti governativi per gestirli con finalità di parte, che diventò strutturale e, in parecchi casi, disponibile a servirsi di metodi e strumenti illegali”. La Conferenza Regionale su “Stato, Mafia e Società” del 1983, tratteggiò i fondamentali problemi del territorio e della società calabrese, facendo emergere un allarmante “pericoloso, progrediente diffuso attacco al “territorio” calabrese, condotto da cosche e trame mafiose che avevano esteso gli interessi dal settore agricolo, alle aree interne ed urbane e allo sfruttamento delle coste, inserendosi negli ambienti di lavoro e finanche nelle strutture formative e culturali , modificando il vecchio rapporto di subalternità e mutua convivenza con alcuni settori della politica, attraverso riusciti inserimenti diretti nell’ambito partitico e financo nei collegi amministrativi”. Ma fece emergere “un deficit enorme di capacità amministrative e di governo dell’amministrazione pubblica regionale (a 13 anni dalla sua costituzione) e sub-regionale, scarsa trasparenza amministrativa e diffusi comportamenti “grigi”, gravi carenze di competenze tecniche e amministrative, e, infine, anche la mancanza di una presa di coscienza in tutta la popolazione del valore rappresentato dai beni del territorio e dei pericoli a cui erano esposti e l’incapacità dei gruppi e delle forze sociali più consapevoli, di far valere progetti e perseguire obiettivi di sviluppo e tutela dei beni territoriali e ambientali”. Nella già citata Conferenza Regionale del 1984, furono assunti impegni e definite strategie per rimediare al quadro di negatività configurato nella conferenza dell’anno precedente. Purtroppo, le analisi del Qcs propedeutiche alla elaborazione del Por Calabria 2000/2006, confermarono, aggravate, tutte le negatività del modello Calabria emerso nella conferenza del 1983 e il fallimento dei propositi assunti nella conferenza del 1984. Rispetto a tale situazione, nessun miglioramento sostanziale registrano i documenti strategici regionali per la programmazione 2007/2013, nei quali è ribadito che resta un punto cruciale “la sicurezza e la difesa dal rischio idrogeologico, sismico e da inquinamento”, dovendo operare in un territorio con “caratteristiche morfologiche, sismiche e meteorologiche sfavorevoli alla stabilità del suolo e alla sicurezza degli insediamenti”. Montagne di soldi sono state dilapidate senza conseguire i risultati sperati, ed è ora giustificato il timore di un possibile fallimento del Por 2007/ 2013. Per tutte queste ragioni, è elevato il rischio che la sua denuncia resti inascoltata, com’ è successo per le tante che l’hanno preceduta. Mi consenta di ricordarne alcune recenti. La mia riflessione “Non si soffochino i progetti che puntano al bene comune”, pubblicata sul suo giornale il 17 giugno 2008. La mia denuncia riguardava il rischio di fallimento della nuova legge urbanistica della Regione Calabria, fortemente orientata a favorire la costruzione di una società possibile in Calabria e a risolvere una gran parte dei problemi cruciali sopra richiamati (era stata voluta anche per questo). Intravedevo un naufragio più grave di quello del mio progetto dei 14 presidi territoriali idrogeologici e idraulici approvato dalla Giunta nel 2004 ( Delibera G.R. n. 996 del 14/12/2004), e mai realizzato, con cui avevo sognato di dare risposte concrete a problemi gravi del nostro territorio. Le ricordo che il titolo originale dell’articolo era “Inferno Calabria: sesta bolgia” , accuratamente scelto per segnalare che il male peggiore in Calabria è rappresentato dall’ipocrisia imperante nelle classi dirigenti, a cui lei ora addebita le responsabilità. E come dimenticare “Frana, metafora di crolli annunciati” sul Quotidiano del 31 gennaio 2009, e recentemente ricordato dall’autore sconsolato? “La Calabria frana. Frana, in forme antiche e in forme nuove, ormai da decenni. Nell’indifferenza più totale. Spesso nel compiacimento dei gruppi dirigenti. Perché qui da noi, come ricordava Alvaro, chi governa e chi comanda ha costruito fortune sulle catastrofi naturali e sulle disgrazie della gente”. Ho apprezzato il respiro umano, culturale e sociale che animava l’articolo e, in larga parte, anche i contenuti. Ho ricordato Vito Teti componendo il documento “Denuncia-appello al presidente della Giunta Regionale della Calabria”, poi sottoscritto da un manipolo di geologi calabresi “temerari”, qualcuno poi pentitosi per paura, pubblicato gratuitamente da “Mezzoeuro” del 2 maggio 2009. La denuncia riguardava la mancata attuazione di tutte le iniziative che erano state programmate nel 2005 per fronteggiare le condizioni di pericolosità e rischio idrogeologico e sismico della Calabria. Non ebbe risposta dal presidente, né da alcun altro politico di maggioranza o di opposizione, né fu oggetto di alcun dibattito. Nemmeno Teti ci fece caso! La terza cosa, condividibilissima, è che vale la pena comunque di continuare a battersi per costruire una società capace di farsi sentire, favorendo il processo democratico di partecipazione e mettendo al centro del dibattito la salvaguardia del territorio e dell’ambiente. C’è tutta l’urgenza di fare ciò e in forme nuove: denunce isolate restano voci clamanti nel deserto ed è perciò necessario favorire la costituzione di centri di aggregazione, che non devono consistere in nuovi organi di natura politica ma devono esprimersi come “Agorà” dove esponenti liberi della cultura, della ricerca , della società, dell’economia, della politica, possano incontrarsi come pari per rappresentare il territorio e la sua voglia di emancipazione e di sviluppo, in un contesto più favorevole e accogliente per il bene comune. Crotone e Maierato sono fatti emblematici, allarmanti e fortemente stimolanti. L’emergenza Crotone, legata ai rifiuti tossici della Pertusola, per il modo in cui si è concretizzata, non solo è agghiacciante, ma diventa un indicatore del destino di degrado e di schiavitù a cui è votata una società priva di istituzioni democratiche, a livello nazionale e regionale, capaci di concretizzare politiche economiche, sociali e ambientali sane, di rispondere ai bisogni della gente, di attivare il controllo del territorio, di attuare misure anticorruzione, di garantire più giustizia, di prestare attenzione al bene comune, e che nella parte non istituzionale rinuncia alla partecipazione e alla vigilanza, a dare sostegno e stimolo alle fragili amministrazioni locali e al governo regionale, a incoraggiare le pratiche del buon governo, e sceglie di stare muta sorda e non vedente. Maierato è l’ultimo triste episodio di una lunga serie di “catastrofi naturali” che ha suscitato i sentimenti più nobili di trepidazione e solidarietà di tutti, capace di stimolare nei calabresi il senso di vulnerabilità condivisa e responsabilità reciproca. La speranza è che si possa ridestare l’amore dei calabresi per la propria terra e con esso la rinuncia ad invocare la “ natura matrigna” e il rifiuto di un sistema che nulla fa per impedire che “frane ed alluvioni portino via strade e paesi”.

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