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di FABIO AMENDOLARA
POTENZA – «Mi hanno chiamato. Conosci qui, conosci là… poi mi hanno detto il fatto che Tonino si era pentito… Mannaggia… se funzionava il giocattolino, almeno uno era… meno uno».
Michele Di Bello riferisce a Franco Rufrano, sospettato di essere uno degli esecutori materiali dell’omicidio dei coniugi Gianfredi (avvenuto a Potenza nel 1997), quello che gli hanno chiesto i magistrati della procura antimafia di Salerno nel corso del suo interrogatorio.
Una cimice nella sua auto trasmette tutto alla sala intercettazioni della Sezione criminalità organizzata della Squadra mobile di Potenza.
Michele Di Bello, secondo gli investigatori, con quelle parole fa riferimento «all’attentato omicidiario progettato nei confronti di Antonio Cossidente», il boss dei basilischi accusato di aver organizzato il commando dell’agguato a Pinuccio Gianfredi.
E quella è un’intercettazione che «riscontra – si legge in un documento della procura antimafia di Potenza – in modo inequivocabile alcune delle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Gino Cosentino in merito al progetto omicidiario intrapreso ai danni di Cossidente a seguito dei suoi progetti collaborativi».
Ecco il racconto di Cosentino: «Quando si è scoperto che Cossidente aveva parlato con i servizi segreti, Renato ha detto che lui voleva soddisfazione di quanto successo e in quella circostanza io ho detto che per quanto mi riguardava io avevo chiuso. Rufrano aveva bisogno di una pistola e Saverio Riviezzi, la mattina del processo, me l’ha portata. Io poi l’ho consegnata a Rufrano. Si trattava di una 7,65 che, a dire di Rufrano, si inceppava».
Poi, nel corso di un altro interrogatorio, ha aggiunto: «Il motivo per cui Rufrano voleva uccidere Cossidente era dovuto al fatto che sapeva delle intenzioni collaborative che Cossidente aveva avuto in passato. In particolare Rufrano aveva alcuni atti processuali… dai quali emergeva chiaramente che Cossidente aveva avuto contatti con uomini dei servizi segreti… l’omicidio Cossidente era stato concordato e approvato sia da Martorano che da Riviezzi. Entrambi fornirono in due circostanze diverse la pistola che doveva servire per l’omicidio… Quando Rufrano venne a portarmi le carte processuali era in compagnia di Michele Di Bello, con il quale spesso si accompagnava. Infatti Di Bella lavora per Rufrano in una ditta di disinfestazione e pulizie gestita da quest’ultimo. Rufrano avrebbe cercato insieme a Michele di uccidere Cossidente senza riuscirci… dopo alcuni giorni dal mancato attentato, Rufrano disse che avrebbe vluto parlare con Riviezzi per portare a termine l’omicidio e farsi dare una pistola a tamburo poiché temeva che quella automatica potesse incepparsi».
Ma perché Rufrano voleva liberarsi di Cossidente? Lo spiega agli investigatori della procura antimafia Paola Rosa, compagna di Cosentino: «Rufrano venne a trovarci in compagnia di Michele Di Bello. Senza preoccuparsi della mia presenza i due si sedevano con Gino a discutere e nella circostanza gli consegnarono della documentazione contenente dichiarazioni rilasciate da Cossidente a una persona dei servizi segreti. Con queste dichiarazioni Cossidente aveva messo a conoscenza il suo interlocutore di una lunga serie di fatti che riguardavano ambienti di criminalità organizzata. Si trattava di una condotta che i due e Gino ritenevano molto pericolosa per gli effetti repressivi che avrebbe potuto produrre su di loro, sui loro amici e sull’organizzazione. Per questo motivo i due rappresentavano a Gino che avevano già tentato, senza riuscirci, di eliminare Cossidente, ritenuto a quel punto un infame».
f.amendolara@luedi.it

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