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di PAOLO JEDLOWSKY*
L’Università è sotto attacco. Il disegno di legge Gelmini ora in discussione al Senato è solo l’ultima di numerose espressioni. Il disegno, se approvato, comporta la riduzione dell’autonomia degli Atenei attraverso l’introduzione di sponsor esterni nei consigli di amministrazione; stabilisce nuovi criteri di accreditamento dei corsi di laurea imponendo così di ridisegnarli e ridurli; ratifica tagli radicali al finanziamento pubblico delle università (che da anni è diminuito comunque); riduce il turnover (non tutti coloro che vanno in pensione potranno essere rimpiazzati); amplifica il precariato. Il mantello retorico del disegno di legge parla di “criteri di valutazione” e di “razionalizzazione” dell’offerta didattica. Ma la razionalizzazione consiste solo nel taglio delle spese; quanto alla valutazione, il Ministero ha varato negli ultimi anni diversi organi per esercitarla: non ne ha ascoltato nessuno; i criteri fin qui utilizzati sono quasi solo economici (cioè inadeguati a giudicare processi formativi) e quando non sono tali sono insensati (è “virtuoso” ad esempio il corso che fa scorrere più celermente gli studenti dall’immatricolazione alla laurea: un criterio che, in assenza di contrappesi, esorta a promuovere indiscriminatamente!). L’università pubblica ha molti problemi. Il decreto non ne affronta nessuno. Crea confusione, imponendo nuovi riordini che si sommano a quelli che quasi ogni anno le facoltà sono state costrette a fare in virtù delle oscillazioni delle direttive ministeriali. Genera scontento: non risolvendo l’annoso problema dello statuto giuridico dei ricercatori (a cui di fatto si chiede da tempo di fare i docenti, ma che non sono mai stati riconosciuti tali) li tratta in modo tale da spingerli all’agitazione. Direi anche che insulta chi insegna, non riconoscendo alcun valore a quanto la Conferenza dei rettori ripete da anni riguardo alle necessità degli atenei. Tutte le componenti del mondo universitario sono preoccupate. L’effetto del disegno è di rendere dubbia la possibilità che il prossimo anno accademico si apra regolarmente. Non mi pare che gli organi di informazione fin qui abbiano molto aiutato l’università. Specie l’anno passato, si sono esercitati soprattutto nella critica dei meccanismi perversi di potere incistati in alcuni circoli accademici (il clientelismo di certi “baroni”): una critica utile e sacrosanta, ma che, non accompagnata da altre considerazioni, ha contribuito a generare presso l’opinione pubblica un processo di delegittimazione dell’intera università che temo faccia più il gioco di chi intende distruggerla che quello di chi vuole migliorarla. Ma perché l’università oggi viene delegittimata? Le necessità di contenere la spesa pubblica giocano fino a un certo punto. L’argomento potrebbe essere discusso senza bisogno di attaccare nessuno: e del resto la percentuale della spesa pubblica per formazione e ricerca in Italia è più bassa che in qualunque altro paese europeo. Un articolo di Franco Rositi nel numero della rivista “Il Mulino” ora in edicola aiuta a capire. L’articolo si intitola Bugie senza vergogna. Riguarda lo stato della comunicazione pubblica in Italia. L’osservazione centrale di Rositi è che nella comunicazione politica e nell’informazione pubblica oggi in Italia vi sia un altissimo grado di tolleranza della menzogna. Altrove le bugie, quando sono scoperte, fanno scandalo, e in genere sono letali per il mentitore. Non così in Italia: si possono dire menzogne impunemente. Eventualmente, se scoperti, le si ritrattano, ma nessuno se ne scandalizza. L’ipotesi dell’autore è che ciò dipenda da una sorta di disincanto: il pubblico sa che ciascuno tira l’acqua al suo mulino, dà per scontato che per i suoi fini ciascuno usa ogni mezzo, e dire bugie è uno dei mezzi più ovvi. Con ciò la sfera pubblica si perverte: invece che di un confronto tra argomentazioni, fra le quali i cittadini sono chiamati a valutare la migliore, viene a trattarsi di uno scontro tra furbi, dove vince chi riesce ad abbindolare il pubblico con la maggiore efficacia. Sulle conseguenze di questa tolleranza della menzogna nei discorsi pubblici non mi soffermo. Quello che mi colpisce però è che i discorsi che si fanno nelle aule delle università sono del tutto diversi. E qui sta forse una delle ragioni dell’attacco a cui vengono sottoposte. In un’aula universitaria la menzogna non è tollerata. Perché non appartiene per definizione al discorso scientifico. La scienza è fatta di affermazioni verificabili: lo scienziato o il docente che menta non può farlo impunemente. L’istituzione universitaria è depositaria del sapere scientifico, e da questo mutua le procedure di controllo. Il grado di tolleranza della menzogna è vicino allo zero. Ma se la cultura italiana, o quanto meno quella cui si riferisce chi ora è al governo, tende a tollerare la menzogna, è evidente che l’università non può che apparire come un luogo minaccioso. L’università rappresenta, o meglio è, un’altra cultura, un’altra Italia. Potrei aggiungere al discorso di Rositi qualche altra osservazione. Il più bello e inquietante tra i film-documentario sull’Italia contemporanea, Videocracy di Erik Gandini, ha come sottotitolo “Basta apparire”. Nel film, la frase è pronunciata da tal Lele Mora, procacciatore di partecipanti al Grande Fratello, tronisti e veline. Esprime un altro aspetto della cultura attuale. Ma, di nuovo, l’università è differente. Un esame non si passa con un bel vestito. Il credito scientifico non si consolida imbellettando una pubblicazione. Più in generale, il modello di discorso fondamentale della cultura oggi egemone è quello pubblicitario. Ciò non è senza conseguenze. Un enunciato pubblicitario è seduttivo: non può essere né “vero” né “falso”, se mai è più o meno efficace. E’ dunque un discorso in cui il giudizio di verità su quello che si dice è fuori questione. (E’ appropriato in certi casi, come quando si vuole vendere qualcosa; ma solo fino a un certo punto: le promesse del venditore, l’acquirente poi le verificherà nel consumo). Ebbene: diffondendosi, questo tipo di discorso disabitua a valutare la verità e la falsità. Ma i discorsi scientifici sono per principio diversi. Qui il gioco linguistico non può prescindere da questa valutazione. Non stupisce che una cultura modellata sulla pubblicità (e dove la politica, soprattutto, tenda a somigliarvi) vi veda un nemico. L’università è, nelle società moderne, depositaria del discorso scientifico. In modi diversi nelle differenti scienze, si tratta comunque di un discorso in cui ciò che si dice è sottoposto per principio a procedure di verificazione o di falsificazione. In cui vige il controllo reciproco e in cui si è obbligati alla trasparenza (bisogna dichiarare fonti, metodi, prove e argomenti: e tutta la comunità scientifica deve potervi accedere). Il sapere a cui si mette capo è disinteressato (conta per se stesso, non perché produce profitti – anche se, naturalmente, può generarne). Nell’università dunque si impara a documentarsi, a valutare, a pensare, a essere critici, a essere responsabili di quel che si dice. Possiamo fare a meno di tutto ciò? Non mi pare. Allora che l’università vada difesa. Perché bisogna tenere a mente quale è la posta. I suoi problemi vanno discussi e affrontati, ma l’università va sostenuta perché svolga al meglio le proprie funzioni, va controllata per la sua capacità di svolgerle, va aiutata a difendersi da chi dall’interno la scredita (come i “baroni” clientelari, appunto). In fondo, proprio il fatto che venga attaccata testimonia della sua vitalità.

*ordinario di sociologia presso la facoltà
di Scienze politiche dell’Università della Calabria

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