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di LEO AMATO
POTENZA – L’entità della condanna non lascia spazi alla libera interpretazione: reggono i fatti oggettivi descritti dall’accusa e i caratteri psicologici che sono stati messi in risalto. Se alla misura della pena base si aggiunge l’aggravante del cosiddetto “metodo mafioso”, vuol dire che si assume che l’imputato sia ancora il “boss” che negli anni novanta terrorizzava mezza Potenza.
Dopo una camera di consiglio durata poco meno di sei ore il collegio del Tribunale ha condannato Renato Martorano a 14 anni di carcere per usura ed estorsione continuate. L’esclusione dell’aggravante del metodo mafioso quanto al primo capo d’imputazione spiegherebbe l’abbuono rispetto alle richieste dell’accusa, che erano arrivate a 17 anni.
Non era fuori luogo, in conclusione, stando all’esito del processo di primo grado, la sicurezza che il pm Francesco Basentini ha esibito in mattinata nella sua breve replica rispetto alle difese proposte ieri l’altro dai legali che hanno assistito Martorano, gli avvocati Pasquale Bartolo ed Enzo Falotico, che più volte si erano soffermati sul tema di un diffuso “pregiudizio” nei confronti del loro cliente, e “imprecisioni” nella ricostruzione dei rapporti finanziari in discussione, in particolare tra il capitale prestato e gli interessi che venivano applicati. Basentini li aveva etichettati in breve come “tecnicismi”, senza risparmiarsi una dose di sarcasmo a consumo dei pochi spettatori che erano presenti in udienza, parlando di un processo improprio di “beatificazione” per l’imputato quale “assoluto benefattore dell’umanitá”.
Nel dibattimento è stato messo a fuoco il sistema di relazioni che ruotava attorno all’asse tra Martorano e la parte offesa, grazie a una serie di intercettazioni ambientali, riscontrate quasi da subito con l’acquisizione di diversi foglietti manoscritti con la contabilità dei vari crediti, un impianto accusatorio che aveva resistito per l’intera fase cautelare, fin quando si è fatta avanti la vittima per testimoniare assieme alle persone a lui vicine.
Al centro della morsa era finito un amico di vecchia data del boss, Carmine Guarino, noto imprenditore del capoluogo, baciato dalla fortuna prima di precipitare in disgrazia, e dalle sue dichiarazioni è scaturito uno stralcio dal fascicolo d’indagine per cui lo scorso settembre sono finiti in carcere tre presunti finanziatori di quel giro di prestiti a usura: l’ingegner Nicola Giordano, Gerardo Vernotico e Matteo Di Palma, l’unico che avrebbe scelto di testimoniare ammettendo una serie di circostanze molto importanti, come di aver prestato i soldi a Guarino, e aver avuto diversi “ringraziamenti” in cambio da Martorano.
Ha impressionato il contegno dell’imputato. Sul tema dell’estorsione perpetrata il pm ha parlato di una “minaccia implicita” citando alcuni precedenti per reati commessi con l’aggravante del metodo mafioso nei quali è stato considerato sufficiente uno sguardo da parte di persone gravate da condanne dello stesso tipo di quelle accumulate da Martorano. Stesso contegno, a dire del pm, che l’imputato avrebbe tenuto durante tutto il corso processo, scegliendo di tacere sui nomi di tutte le altre persone che avrebbero intrattenuto dei rapporti finanziari con la sua intermediazione.

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