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di MIMMA IANNELLO*
Quarant’anni fa, il 20 maggio del 1970 veniva approvata la Legge 300 meglio conosciuta come Statuto dei Lavoratori ma dal preciso titolo di “Norme sulla tutela della libertà e della dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”. La struttura della Legge 300 è ancora oggi la base su cui poggia la legislazione sui diritti e sulle libertà di lavoratori e sindacati e lo strumento che rende cogente i principi della Costituzione sui temi del lavoro e della sua rappresentanza; un impianto che interpretava in maniera avanzata i cambiamenti e le tensioni sociali ed economiche degli anni in cui nasceva. Era l’Italia che veniva dal conflitto mondiale e dalla dittatura fascista, dalla Resistenza e dalla Costituzione, dalla fatica delle campagne e dalla durezza delle fabbriche fordiste. Una legge che ha rivelato di aver mantenuto intatta nel tempo la sua validità reggendo alla prova dei continui attacchi. Ed è proprio per la portata fortemente identitaria, oltre che giuridica dei suoi principi, che continua a essere terreno di reiterate offensive da parte dei Governi di centrodestra che, dall’art. 18, al Libro Bianco sino alla proposta di legge sull’arbitrato, provano a modificarne l’impianto per svuotarla di valore e insidiare i diritti dei lavoratori e l’attività del sindacato in essa regolata. Fra i “padri” dello Statuto, il giuslavorista Gino Giugni e il sindacalista della Cgil, dirigente nazionale del PSI e ministro del Lavoro sino al luglio del ’69, Giacomo Brodolini la cui morte prematura impedì di vederne l’approvazione in Parlamento. L’embrione della proposta di giungere a uno Statuto dei diritti dei lavoratori, accompagnata dallo slogan “la Costituzione nelle fabbriche”, venne avanzata al III Congresso della Cgil del 1952, allora segretario Giuseppe Di Vittorio. La fase di incubazione durò circa 20 anni sotto la spinta delle trasformazioni che investivano il mondo del lavoro e animavano il conflitto sociale che dalle campagne s’incrociava con quello delle aree industrializzate del Nord dove si polarizzavano masse di emigranti disoccupati, ex contadini ed ex braccianti che portavano dal Sud oltre che la miseria e la voglia di riscatto sociale, il patrimonio di lotte bracciantili e contadine contro il latifondo e lo sfruttamento del caporalato. Quante Rosarno! E quanto fu profeta P.P. Pasolini quando anticipò a metà degli anni Sessanta chi in Calabria, dall’Africa, un giorno ne avrebbe preso il posto nelle campagne spoglie di braccia e di speranze. Quell’esodo di diseredati e sfruttati meridionali che popolò nazioni lontane e le periferie-ghetto delle grandi città del Nord, alimentò il movimento operaio delle fabbriche che sfociò più avanti nelle battaglie dell’autunno caldo (’69). Accompagnò i cambiamenti socio-culturali di quegli anni e riversò al Sud le conquiste salariali esibite con sacrifici nella “casa al paese” dove si progettava un rientro sociale che li affrancasse dalla povertà da cui si era fuggiti prima e dopo, dall’emarginazione sociale della città dove non sempre era facile costruirsi una dimensione identitaria che sdoganasse la figura “del terrone” in un percorso di inclusione nella nuova realtà metropolitana. Erano gli anni del “miracolo economico”, dell’affermazione del nuovo modello industriale che portò con sé il carico di contraddizioni umane e sociali, gli anni della guerra fredda, delle repressioni sindacali violente, del capitalismo industriale, dei partiti di massa, del Concilio Vaticano II, delle rivolte culturali del ’68, dei movimenti studenteschi e pacifisti, della tragica incubazione dei germi del terrorismo stragista, dei servizi segreti, di Gladio e della P2; gli anni dei primi Governi di centro-sinistra e della difficoltà di dare soluzione al conflitto sociale. Erano gli anni “delle mani sulla città” con lo scempio urbanistico delle periferie e la cementificazione selvaggia delle coste. In Calabria, erano gli anni del sogno industriale, delle attese mancate e del principio di danni sociali e ambientali di cui oggi si scontano gli effetti. Erano gli anni in cui lievitava la sommossa di Reggio Calabria, del pacchetto Colombo, della Cassa per il Mezzogiorno, dell’Opera Sila. Anni in cui non si colse, privi di una classe politica adeguata e lungimirante, la portata della sfida di dare alla Regione le basi di un modello economico e sociale che la liberasse dal bisogno di lavoro, di ammodernamento e di valorizzazione strategica della spesa pubblica. In circa 40 anni di vita della Casmez, furono erogati al Mezzogiorno oltre 140 miliardi di euro, circa 3,2 miliardi all’anno il cui impiego non seppe aiutare, per quella parte, il superamento delle sue arretratezze infrastrutturali e sociali. In quei limiti, la premessa dei ritardi strutturali odierni e della perdurante condizione di un’economia fragile e assistita zavorrata a sperperi, inefficienze e al ricatto di lobby e di mafie. Il segnale già allora di una Regione incubatrice di capitale sociale prezioso lasciato andare altrove come riserva di braccia e di menti, terreno fecondo di speculazioni che dall’Unità d’Italia a oggi, nutrono i famelici appetiti di quanti la lasciano denutrita ed esangue nell’inerzia di affrontare la svolta che tarda ad arrivare. La sanità calabrese nelle sue infinite letture ne è oggi un esempio eloquente. In quel contesto nazionale l’evoluzione delle battaglie per la conquista di spazi di libertà e diritti nel lavoro portò, dalle modifiche al sistema delle relazioni industriali attraverso la contrattazione aziendale, alla legge sul licenziamento giusta causa e all’obiettivo di estendere le conquiste derivanti dalla contrattazione nelle grandi fabbriche. Da lì sino a giungere a un dibattito avanzato maturato durante i governi di centrosinistra, che diede sbocco in chiave legislativa al conflitto sindacale attraverso una legge di attuazione delle norme costituzionali sul lavoro. La proposta di legge presentata nel giugno del ’69, ebbe così nel dibattito parlamentare la funzione di strumento regolatore delle relazioni sindacali e del conflitto sociale e definì in primo luogo, il rapporto con “l’impresa” affinché questa non assumesse il sopravvento sulle libertà del lavoratore-cittadino e sulla sua identità che veniva ora tutelata in un quadro preciso di diritti che mantengono la loro attualità anche, e a maggior ragione, nella dimensione odierna del lavoro precario. Fu così che il 20 maggio del 1970, dietro un periodo di lotte e di mobilitazione che si protrasse sino ai primi anni di quel decennio, entrava in vigore la Legge 300 dopo aver ricevuto il voto favorevole del Senato (11.12.1969) il giorno prima della strage di Piazza Fontana e infine della Camera nel maggio del 1970. I principi costituzionali entravano nelle fabbriche, i lavoratori acquisivano libertà e diritti e il sindacato acquistava piena cittadinanza nei luoghi di lavoro. Quella data segnò così una tappa importante nella storia del movimento sindacale che rimane il simbolo emblematico e sostanziale della lotta dei lavoratori e delle lavoratrici per i diritti e le libertà sul lavoro e che aiutò l’unità del movimento sindacale e lo sbocco del conflitto sociale in una fase delicata della vita democratica del Paese. Oggi, quell’impianto di legge si scontra con un mercato del lavoro frammentario, precario, esposto ai venti di una crisi che non conosce argini e una cultura liberista che spinge per liberare il lavoro dai vincoli e dalle regole che lo disciplinano per renderlo sempre più flessibile e ricattabile. La speranza di un lavoro stabile e sicuro annaspa e si sperde dentro una moltitudine di nuove tipologie di lavori (attualmente se ne contano 42) e i tentativi subdoli del Governo di diminuire la valenza del Contratto nazionale di lavoro, di limitare l’impatto delle norme dello statuto, di svuotare il ruolo e la funzione del sindacato in una logica che tende a rendere il lavoratore e le lavoratrici soli e deboli di fronte al potere dell’impresa e del mercato. Le drammatiche storie personali di perdita del lavoro, le tante vicende di sfruttamento, l’assenza di volontà del Governo di fare del lavoro pubblico e privato il perno su cui incentrare politiche anticicliche per contrastare la crisi, rientrano in una logica più ampia in cui il valore del lavoro e della persona che lo produce è riconducibile aduna visione che mercifica diritti, dignità e libertà. La stessa logica che porta a negare un sostegno ai redditi da lavoro dipendente e alle pensioni, a mantenere iniquo il peso della fiscalità, a non predisporre misure adeguate a sostegno di chi è espulso dai processi produttivi, a non predisporre tutele efficaci per il lavoro precario, a esternalizzare ogni pezzo possibile del lavoro pubblico, a impoverire il diritto allo studio con tagli ai servizi e con l’espulsione di migliaia di docenti e figure amministrative, a emanare e a inchiodare alla clandestinità la manodopera dei migranti, ad abdicare al contrasto dell’evasione, del lavoro nero e sommerso, a controriformare le leggi (Pacchetto Welfare – Prodi) e alleggerire le pene e le responsabilità (vedi Dlgs 81) per chi non adempie ai vincoli normativi sulla sicurezza sul lavoro lasciando senza giustizia le migliaia morti e di infortuni all’anno che si registrano in luoghi di lavoro sempre più insicuri e incontrollati. In questo quadro di gravi destrutturazioni sociali, la ricorrenza dei quarant’anni dello Statuto dei lavoratori che oggi si vorrebbe trasformato in Statuto dei lavori, mantiene intatta la sua modernità seppure potrebbe richiedere modifiche che colgano le trasformazioni intervenute nel sistema produttivo e nella dimensione tradizionale delle grandi aziende, ma solo per rinvigorirne i suoi principi e renderlo meglio esigibile. Certo, sempre che si affermi per prima sul fronte politico e sociale, la battaglia per il lavoro che per molti ancora non c’è e se arriva, al netto di privilegi familiari e di vantaggi clientelari, si fa di tutto per renderlo assistito e asservito.

*Segretaria regionale Cgil Tappa

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