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«Mi chiamava alle cinque e mezzo di mattina e la domanda era sempre la stessa: «Figlio’ ti sei già fatto la barba?» Se gli rispondevo di sì mi diceva di raggiungerlo a casa sua, altrimenti potevo andare a farmela da lui, così ci mettevamo subito a lavorare».
Claudio Calza è un quarantenne di Chiaromonte in provincia di Potenza, con un presente romano illustrato dai paparazzi dei vip, e un passato da enfant prodige della finanza.
A soli ventisei anni, nel 1988, ha fondato la Cassa di mutualita’ di Chiaromonte: 600 soci e 3 miliardi amministrati. Cinque anni dopo era il più giovane banchiere d’Italia, inventore e presidente della Banca popolare del Sinni: 1000 soci in 44 comuni della Basilicata, con un capitale di oltre 12 miliardi delle vecchie lire.
A questo punto avviene l’incontro che avrebbe segnato la seconda parte della sua vita. Officiava un vecchio amico di famiglia, il deputato potentino Angelo Sanza, e Calza si ritrova a cena con il presidente emerito della Repubblica italiana, Francesco Cossiga da Chiarimonti, un’assonanza su cui sarebbe nato uno scherzo destinato a durare fino a oggi.
«Era curioso e voleva capire come avessi fatto a realizzare un’operazione come quella della banca in un territorio così disagiato. Mi elogiò e disse: «Venga a trovarmi», ma la presi come una battuta. E invece la mattina dopo arrivò la prima telefonata».
Da allora Calza è entrato a far parte di quello che per molti era il clan di Francesco Cossiga, tanto che ieri nella camera ardente oltre alla corona degli uomini della scorta, i soli fiori sulla bara erano i suoi e quelli del fedele Paolo Naccarato.
Oggi la Popolare del Sinni fa parte del gruppo della Banca popolare dell’Emilia-Romagna, e il suo giovane presidente siede nel consiglio d’amministrazione di una controllata speciale, il Banco di Sardegna, già Istituto di Credito Agrario per la Sardegna, diretto a lungo dal padre del senatore, laico e fervente antifascista, Giuseppe Cossiga,.
Calza ha un rapporto difficile con i giornali, dove il suo nome negli ultimi anni è apparso in relazione a una serie di inchieste della magistratura che gli sono costate moltissimo a livello personale. La prima partì da Potenza, dove il pm Henry John Woodcock aveva messo a fuoco un sistema corruzione ai vertici dell’Inail, finendo per colpire anche il direttore del reparto operativo dei servizi segreti, il generale Stefano Orlando, che era stato il responsabile della sicurezza proprio di Cossiga. Poi è arrivata Italease, e l’indagine romana sul crack delle società di un noto immobiliarista capitolino, Danilo Coppola, con un prosieguo a Milano sul filone dei derivati.
Se decide di vincere la diffidenza è soltanto per onorare la memoria dell’«amicizia immeritata» del “presidente”, come continua a chiamarlo nonostante il tempo trascorso assieme, «un uomo generoso e disinteressato», tanto che in mezzo alla tempesta giudiziaria non esitò ad andare a Palazzo Madama per rassegnare le sue dimissioni, poi respinte.
«Cercai di fargli notare che non era necessario – racconta Calza – ma lui mi zittì in malo modo e mi disse: «Statti zitto. So io che devo fare».»
All’inizio la proposta era stata di fare politica al suo fianco, coi “quattro gatti” variamente descritti come “gli straccioni di Valmy” ovvero i reduci della diaspora scudocrociata, quando Cossiga era “gatta mammona”, e Calza “gatto mammoncino” per sua diretta investitura.
Prevalse la passione per la finanza, e gli rimase il ruolo di consigliere speciale in materia economica e di pubblica amministrazione.
«La sua casa era il più alto ufficio della diplomazia italiana. Dalle sette di mattina alle undici di sera era un andirivieni di ambasciatori, ministri, cardinali, e capi di stato stranieri. Ci sentivamo ogni giorno, ma negli ultimi mesi si era fatto sempre più scostante. Cercavamo tutti di stuzzicarlo ma non leggeva neanche più i giornali. Mi telefonava perché lo aiutassi a ricordare persone e cose. Non poteva soffrire i vuoti di memoria».
L’ultima chiamata è di pochi giorni prima il suo ingresso in ospedale. L’idea era fare la pace tra Fini e Berlusconi, «una cosa – secondo Calza – che in altri tempi l’avrebbe appassionato, perché aveva una grande stima di Fini, come di D’Alema, e al cavaliere lo legava soprattutto il rapporto con la signora Veronica, che gli mandava ogni settimana le marmellate e i pasticcini di Macherio, i suoi preferiti, ed era un gesto che lui sapeva come apprezzare. Ma la risposta fu soltanto: «Statti bene, figlio’».» Cossiga lo aveva spinto a cresimarsi e gli aveva fatto da padrino, così “figlioccio” gli spettava di diritto.
Anche nel recente passato c’erano stati momenti bui, come nel 2001 durante una lunga vacanza in barca. Dopo un mese di crociera la nipote, Rosanna Fiori, moglie dell’ ex presidente di Confagricoltura Stefano Wallner, scese a terra per tornare agli impegni della sua azienda florovivaistica a Villanova Strisaili, in provincia Nuoro. Aveva avuto dei problemi con i lavoratori del posto per questo aveva assunto degli extracomunitari, e qualcuno pensò bene di fargliela pagare. Le spararono una fucilata in pieno viso due giorni dopo aver salutato lo zio, e il suo giovane amico finanziere. Ne rimase traumatizzato.
«C’erano momenti in cui si rabbuiava, e diventava impossibile capire cosa pensasse veramente. Poi però tornava quello di prima, con il gusto per il paradosso e le sue uscite spiazzanti. Diceva spesso: «C’è il peccato, ma c’è il perdono», e ogni volta che faceva un’affermazione chiosava che «è pur sempre vero il contrario». Così c’è stato un periodo che prendeva a scrivere una volta col suo pseudonimo di destra, Franco Mauro, e l’altra col suo rivale di sinistra, Mauro Franchi. Qualche anno fa andammo a Barcellona per incontrare gli autonomisti della Catalogna e dei Paesi Baschi, e intervistato da un giornale spagnolo disse che era andato a fare compere alla Fnac. Questo era il senso dell’umorismo secondo il presidente».
Sul capitolo gastronomia in segreto Cossiga e il suo figlioccio condividevano la «passione» per l’uovo fritto, che era diventato un rito quando il senatore lo raggiungeva a casa, e il consulente finanziario tirava fuori il pentolino per due. Dopodichè di solito scattava la pennica pomeridiana.
«Il dottore glielo proibì e trovammo un modo per cucinare senz’olio. Poi se ne venne dicendo: «Però adesso lo mangi pure tu così».»
E tra un sardo che si rispetti e un lucano il discorso non poteva non finire sul pecorino migliore.
«Gli portai del Canestrato di Moliterno. Gli piacque molto, ma non avrebbe mai ammesso che era più buono di quello delle sue parti. Diceva solo che «per cambiare gusto» voleva il Moliterno. Ma quando se ne accorse Serafino Pinna, uno dei maggiori produttori di Thiesi in provincia di Sassari, che era anche consigliere di amministrazione del Banco di Sardegna, non me l’ha mai perdonata».
Tra i tanti che si affollano in questo momento il ricordo più divertente è di quando andarono a Torino per incontrare l’avvocato Agnelli.
«Il discorso finì sull’urgenza di svegliarsi presto per sbrigare le prime cose. L’avvocato disse che si alzava alle cinque e mezza per fare la rassegna stampa, e il giorno dopo, tornati a Roma, il presidente mi chiamò con mezz’ora di anticipo, e una volta arrivato a casa telefonammo all’avvocato. Ci rispose con la voce di un uomo con la bocca ancora impastata dal sonno. Aveva finalmente avuto la prova che l’avvocato era un bugiardo».
Impossibile dimenticare le ombre che ancora avvolgono il ruolo di Cossiga nei momenti più bui degli anni di piombo.
Calza non c’era, anche perché a quell’età aveva appena finito il liceo, e a parte la ritrosia ad affrontare certi argomenti può soltanto testimoniare il pensiero originale del senatore.
«Diceva che gli italiani hanno bisogno di credere che ci sia un mistero. «Quando non si riusciva a capire una verità allora spuntava il mistero», questa era tutta la sua spiegazione. Resterà deluso chi adesso aspetta rivelazioni sconcertanti dalle parole del suo testamento».
Leo Amato

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