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di PIETRO MANCINI
QUEL fascio di garofani rossi – che Pietro Mancini, primo deputato socialista della Calabria, chiese a compagni e amici, nel commovente testamento, di deporre sulla sua tomba – intendo, presto, andare a portarlo al cimitero, dove riposa Giuseppe Malacaria. Pino, come lo chiamavano i suoi amici e compagni del Psi – allora guidato dal segretario nazionale, Giacomo Mancini – era un muratore di 33 anni, che venne ucciso, a Catanzaro il 4 febbraio 1971. Mi sorprende e mi addolora che, a tutti i livelli, nella nostra Regione – dove è in corso una discutibile e non convincente “riabilitazione” storico-politica della sanguinosa rivolta di Reggio – sia caduto l’oblio sulla vittima, uno degli sfortunati protagonisti di una pagina particolarmente tormentosa della storia italiana e calabrese.
Malacaria, quel lontano pomeriggio di 39 anni fa, si era recato, in piazza Grimaldi, a una manifestazione antifascista, indetta dai sindacati e dai partiti democratici contro la “strategia della tensione”, che era culminata, poco più di un anno prima, nella strage alla Banca dell’Agricoltura, in piazza Fontana, a Milano. Mentre gli oratori annunciavano che la manifestazione era stata rinviata, a causa della mancata autorizzazione della Questura, dalle finestre della vicina sede del Msi vennero lanciate pietre verso il basso e la folla si disperse. Alcuni funzionari della polizia fecero irruzione nella sede del partito di Almirante. A quel punto, le urla e il fragore della strada vennero interrotti dalle esplosioni, cui seguirono grida, sangue e gente, che scappava, terrorizzata, e, pochi minuti dopo, si sentì il suono delle sirene delle ambulanze.
Un uomo, colpito, si trascinò lungo il Vicoletto II Duomo e, appena svoltato l’angolo, si accasciò al suolo in un lago di sangue. Quell’uomo, semplice e pacifico, era Giuseppe Malacaria. Trasportato in ospedale, fu visitato dai medici: aveva riportato ferite profonde agli arti inferiori e superiori. Venne subito condotto in sala operatoria, dove gli asportarono il pollice e l’indice della mano sinistra. Ma fu tutto inutile: il giovane operaio socialista morì, in seguito al trauma cranico ed emorragico, causato dallo spappolamento della coscia sinistra. Insieme a lui, quel tragico martedì pomeriggio, finirono in ospedale molti altri feriti.
In quello stesso mese di febbraio del 1971, si concluse la rivolta di Reggio, che era esplosa il 14 luglio del 1970. Otto giorni dopo l’uccisione di Malacaria, il 12 febbraio, l’allora premier, il Dc lucano Emilio Colombo, annunciò in Parlamento il suo “pacchetto” di interventi del governo pro-Calabria, il 15 il consiglio regionale designò, definitivamente, Catanzaro capoluogo, il 18, a Reggio, vennero rimosse le barricate del rione Santa Caterina ed il 23 viene “espugnato” Sbarre, il rione in cui più forte era stata la resistenza dei rivoltosi.
In quei mesi, nella città dello Stretto, vennero indetti decine di giorni di sciopero generale e di paralisi di tutte le attività (dagli esercizi commerciali agli uffici amministrativi, dalle scuole ai trasporti); furono compiuti decine di attentati dinamitardi; centinaia di blocchi stradali e ferroviari; ripetuti assalti alle sedi della Prefettura, della questura – diretta da un valoroso funzionario, Emilio Santillo – e dei partiti politici dell’“arco costituzionale”, migliaia di persone vennero denunciate o arrestate. E, purtroppo, si registrarono sei vittime, tra cui un agente di polizia, al culmine di violenti scontri tra dimostranti e forze dell’ordine. L’allora presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat ( Psdi ), arrivò a minacciare le dimissioni, nel caso in cui il Governo avesse mobilitato l’esercito, per sedare la sommossa.
Furono mesi in cui, mentre la maggior parte dei partiti non riuscì a comprendere e guidare la protesta in un alveo istituzionale, Ciccio Franco, un sindacalista della Cisnal (sindacato vicino al Msi, partito che pure all’inizio non aveva sostenuto la ribellione), appropriatosi del motto “Boia chi molla!” – dannunziano e non di Carlo Rosselli, come qualcuno, di recente, ha detto – assunse la leadership della sollevazione e diresse le proteste. Alle successive elezioni politiche, il partito di Almirante, guidato da Franco, che fu plebiscitato senatore, ottenne, nella città dello Stretto, vette mai raggiunte altrove.
In un suo recente, bel libro, “I cari estinti”, Giampaolo Pansa – che seguì quelle drammatiche giornate, come inviato speciale della “Stampa” – ha raccontato che, quando i giornalisti, la mattina, uscivano dall’unico albergo, rimasto aperto, venivano così salutati da una decina di fascisti: «Ecco i cornuti! Ecco i servi di Mancini! Escono i grandi scrittori, che devono diffamare la rivolta!».
L’effigie del segretario del Psi fu impiccata in piazza. Nessuno, nelle celebrazioni delle presunte “coraggiose gesta” dei rivoltosi, ha rievocato, deplorandolo, quel vergognoso episodio, né ha inteso abbozzare un’autocritica per i tanti atti di violenza e per la virulenta campagna della stampa fascista contro il caparbio e scomodo leader socialista. Spetta agli storici il compito di approfondire quelle vicende e non ai giornalisti e ai politici di improvvisarsi storici, “riabilitando” lontani e non luminosi fatti, o addirittura proponendo la creazione di fumose nuove ( ) “Leghe del Sud”, che dovrebbero riappropriarsi dei truculuenti slogan dei primi anni 70.
Quanti propugnano una sorta di “leghismo alla ‘nduja” non possono dimenticare che quella fu un’epoca caratterizzata da lotte studentesche e operaie, che aprirono nuovi percorsi politici di emancipazione e di progresso, rivendicando tanto aumenti salariali quanto nuovi diritti civili. Il cruciale 1970 fu un anno, caratterizzato da una grave crisi politica, con una forte mobilitazione sindacale, che giunge a provocare le dimissioni del governo Rumor, alla vigilia di uno sciopero generale. Ogni mezzo, compreso lo stragismo (non dimentichiamo l’attentato, a Gioia Tauro, al “treno del sole”: sei vittime) venne, allora, considerato ammissibile per frenare i processi democratici in fase di dispiegamento.
Le vittime di Reggio e il sacrificio di Malacaria, ucciso da una bomba fascista, si inserirono nella triste teoria di un quindicennio della storia italiana, segnato da scontri di piazza e assassini politici. E’, ovviamente, comprensibile la commozione di quanti – soprattutto coloro che hanno militato nel vecchio partito neofascista – ricordando le vicende calabresi degli anni ’70, tendono a trasformare quasi in “eroi”, da onorare, i protagonisti di quella, che fu una sollevazione contro gli organi dello Stato, in un contesto, tutt’altro che nobile e commendevole, di conati eversivi, interessi politici ed economici anti-sviluppo economico.
Di recente, qualcuno ha ironizzato sugli elogi postumi, rivolti a Ciccio Franco da parte di giornalisti dell’estrema sinistra, dimenticando che anche l’allora leader di “Lotta Continua”, Adriano Sofri, commise un grave errore politico, illudendosi di poter egemonizzare i “boia chi molla!”. A quanti lanciano ambigue parole d’ordine, scarsamente utili ai fini dell’indispensabile ricostruzione di una nuova e migliore classe dirigente del Sud (“i calabresi non sono mafiosi, ma disoccupati!”; “occorre far soffiare il vento del Sud!”), intendiamo replicare, sottolineando la recente analisi di Angelo Panebianco: «Il secessionismo, politico e culturale, del Sud avrebbe il fiato corto. A differenza di quello del Nord, non può tradursi in secessionismo politico: non dispone dei soldi. Può, però, avere l’effetto di esasperare, ulteriormente, il secessionismo nordista».
Attenzione, dunque, ai fenomeni di acritica imitazione del passato, di trasformismo e gattopardismo, non inediti nella storia del Mezzogiorno. E riflettori puntati, invece, sulle capacità dei meridionali, a tutti i livelli, di elevarsi da comprimari subalterni, a protagonisti attivi, nella nuova fase politica, che sta per aprirsi a livello nazionale.

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