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di Pino Suriano
Gentile direttore, penso che sia evidente: i titoloni scagliati dal Giornale sul Pd lucano non hanno alcun fondamento, ma paiono costruiti ad arte (e anche molto “alla buona”) su notizie non fresche e per giunta prive di riscontro. Ritengo che debba riconoscerlo subito anche chi, come me, non muore certo di simpatia per il nostro “partito regione”. Sarà utile, perciò, spostare l’attenzione su altri livelli di discussione, come quella che il Sole 24 ore ha rilanciato con l’approfondito servizio dei giorni scorsi. Il tuo editoriale sull’argomento, pubblicato mercoledì 8 dicembre, mi ha fatto tornare in mente un altro tuo commento delle scorse settimane. Mi riferisco a quello in cui ti soffermavi su una Basilicata distratta e lontana, almeno in termini di share, dal plebiscito televisivo del duo Fazio-Saviano. Prendevi spunto da quel dato per una fondatissima domanda sull’autentico spessore culturale delle scelte elettorali dei lucani e ne facevi un opportuno campanello d’allarme, indirizzato non per caso al giovane segretario del Pd, Roberto Speranza (in foto). Mi è sembrato che dalla tua analisi emergesse, in modo implicito ma facilmente deducibile, un dato di fatto per me fuori discussione: l’ininterrotto suffragio biancorosso in Basilicata avrebbe poco o nulla a che fare con un orientamento per così dire “culturale” dell’elettorato. E se per riconoscerlo non bastassero gli esiti fluttuanti dell’Auditel, si potrà ben guardare ai numeri (certamente più indicativi) delle consultazioni elettorali di giugno 2009. In quell’occasione si è votato contemporaneamente per il Parlamento Europeo e per il rinnovo dei Consigli Provinciali di Potenza e Matera. Il risultato? Quanto di più paradossale altrove, quanto di più ordinario qui da noi: maggioranza dei voti al centrodestra per le Europee (dove si vota – per usare le parole citate da Speranza nel dossier del Sole 24ore – influenzati dalla tv); plebiscito per il Centrosinistra alle Provinciali (dove pesa certamente di più quello che possiamo scegliere di chiamare, a seconda dei punti di vista, “contatto umano” o “clientelismo”). Leggere il dato non è difficile. Spiace dirlo, ma la Basilicata non vota in virtù di quello che pensa. Non vota, se non in piccolissima parte, con criteri ideali; non orienta il proprio voto – se la parola “ideale” sembrasse troppo grossa – sulla base dei modelli di sviluppo proposti dalle formazioni in campo. In virtù di cosa, allora, va a votare il cittadino lucano? Impossibile esaurire la domanda in due battute. Sull’argomento, però, potremmo divertirci con simpatiche interviste ai singoli elettori sulle ragioni delle proprie scelte. Ma ci direbbe qualcosa anche la riflessione su alcuni bizzarri rilievi statistici delle elezioni nostrane, come il ripetuto consenso di certi candidati proprio nei comuni in cui sono ubicate certe strutture pubbliche, o il rapporto tra altri candidati e il loro territorio di provenienza (noteremmo i tanti feudi parentali dei big lucani, che accaparrano spesso anche nei paesi di mogli, mamme e cognati). Potremmo notare, ancora, come i cambi di casacca dei nostri politici non intacchino quasi mai il loro bacino elettorale, a dimostrazione del fatto che la gente se ne frega quasi sempre dei colori politici. Questo e tanto altro ancora, direttore, per assicurarci che qui non c’è nulla, ma davvero nulla che possa chiamarsi anche lontanamente culturale (almeno nel senso più nobile del termine). Poco o nulla che abbia a che fare – cito le parole di Speranza sul Sole24ore- con le “ragioni cultural-antropologiche che hanno funzionato da anticorpi a un certo tipo di berlusconismo”. Il Pd è un modello elettorale, di gestione e mantenimento del potere. Non un modello di rinnovamento politico, né culturale. Sa accendere entusiasmi quando si vota, sa “tenere contento” chi ha votato, ma di fatto non ha mai saputo (e forse neppure voluto) comunicare un modello di sviluppo al quale si possa dare un nome. A chi somiglia, per tutto ciò, il Pd lucano? A un noto politico italiano, il cui cognome inizia con la B. Lei forse non sarà d’accordo, ma io, direttore, non riesco proprio a credere alla favoletta per cui il berlusconismo non attecchirebbe a causa di un qualche “substrato culturale-antropologico”, un qualche sistema di difesa al suo presunto modello edonistico. E se, invece, non attecchisse per la supplenza, ben rodata e implacabile, del più berlusconiano dei Pd nazionali, che come lui ha sempre sacrificato all’altare del consenso ogni tradizione e posizione politico-culturale? Quel Pd capace, sempre come il premier, di incantare e far pesare, al momento del voto, le promesse (sempre nuove) per il futuro più di quelle (non mantenute) del passato.

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