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Rocco Antonio Montone è nato a Bella (Potenza)

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BELLA (POTENZA) – È stato insignito con il riconoscimento di Young Investigator, Giovane Investigatore, ma non è collega di Hercule Poirot o di Nero Wolfe: Rocco Antonio Montone di Bella, è un giovane e brillante medico che ha a cuore la ricerca, oltre che la professione. E “avere a cuore” è l’espressione giusta per un uomo di scienze che, a soli 31 anni, ha ricevuto – durante la partecipazione al Congresso europeo di cardiologia, quest’anno in versione digitale per l’emergenza Covid 19 – lo Young Investigator Award, prestigioso premio assegnato alle migliori ricerche effettuate da under 40 in campo cardiologico. In estrema sintesi, approfondendo il ruolo di alcune cellule, la ricerca potrebbe portare a cure personalizzate per ogni singola persona colpita da infarto. La traduzione del titolo inglese è: “La presenza dei macrofagi nell’erosione della placca coronarica fanno presagire un esito cardiovascolare peggiore nei pazienti con sindrome coronarica acuta”.
Il lavoro è frutto della collaborazione tra il Policlinico “Gemelli” di Roma e il “Queen Elizabeth Hospital” di Birmingham. Il dottor Montone è stato il “principal investigator” con la supervisione dei professori Filippo Crea, direttore del dipartimento di Scienze cardiovascolari, e Giampaolo Niccoli.
Montone, che è dirigente medico al Gemelli, ha accettato di spiegare in termini comprensibili a tutti il senso dello studio che lo ha visto protagonista insieme ad altri ricercatori.

Dottor Montone, ci spiega innanzitutto l’ambito della sua ricerca?
«La mia ricerca si concentra sullo studio dei meccanismi che portano all’infarto. L’infarto è causato dall’occlusione improvvisa di una coronaria (le coronarie sono le arterie che portano il sangue al cuore, e dunque permettono alle cellule cardiache di funzionare e vivere). I meccanismi che portano a questa occlusione possono essere molteplici e sono diversi da paziente a paziente. La nostra ricerca ha l’obiettivo di caratterizzare al meglio i diversi meccanismi che agiscono in ogni paziente, in modo da adottare una terapia specifica, sia durante il decorso ospedaliero, che al follow-up. Questo nuovo approccio è detto medicina di precisione o medicina personalizzata».

E lei pensa che questa “precision medicine” di cui è propugnatore sia il futuro della medicina?
«Sicuramente sì».

Cosa avete scoperto?
«Abbiamo scoperto che nei pazienti con infarto la presenza di cellule infiammatorie (i macrofagi nello specifico), all’interno delle coronarie si associava a un tipo di aterosclerosi più aggressiva, che comportava nei mesi e negli anni successivi una prognosi peggiore, in quanto i pazienti più frequentemente si ricoveravano per ricorrenza di problemi cardiovascolari».

Come è arrivato a questo risultato?
«Abbiamo raggiunto questo risultato utilizzando una speciale tecnica, per visualizzare dall’interno le coronarie. Si tratta dell’Oct, una tecnica nata per studiare le minuscole arterie della retina dell’occhio e che noi cardiologi adesso utilizziamo per studiare le coronarie dall’interno. È una sorta di microscopio, che ci permette di vedere ad un livello dettaglio impensabile fino a qualche anno fa ciò che avviene all’interno delle coronarie colpite da infarto».

A cosa ha portato la collaborazione con l’ospedale britannico?
«La collaborazione con il Queen Elizabeth Hospital di Birmingham, ci ha permesso di ampliare la casistica dei pazienti coinvolti nello studio».

Che accoglienza ha avuto il suo studio al Congresso europeo di cardiologia?
«Il mio lavoro ha avuto un’ottima accoglienza al congresso. È stato subito selezionato per la finale dello Young Investigator Award, e tra i 4 finalisti è stato selezionato come lo studio migliore. Anche a livello di diffusione sui social media (Twitter eccetera), lo studio ha avuto una notevole risonanza».

Come potrebbe questa sua scoperta, aiutare la ricerca scientifica e la predisposizione di terapie di nuovo tipo?
«Esistono attualmente numerose terapie in Cardiologia. Il problema è che curiamo tutti gli infarti allo stesso modo. Ma come spiegavo in precedenza, ogni infarto ha un meccanismo diverso, pertanto anche la terapia andrebbe diversificata sulla base del meccanismo. Nello specifico, il nostro studio suggerisce che le nuove terapia anti-infiammatorie con anticorpi monoclonali devono essere riservate a questi pazienti con rischio maggiore (altrimenti se usate su tutti i pazienti, gli effetti benefici non si vedrebbero). Allo stesso tempo, questi pazienti dovrebbero ricevere controlli cardiologici più frequenti, perché sono questi i pazienti con un maggior rischio di progressione della malattia coronarica».

Ci parla della sua carriera? A che età si è manifestata la sua passione per la medicina e la scienza?
«Fin da piccolo ero un appassionato di medicina e scienza. Ho superato brillantemente i test di selezione a Medicina all’università Cattolica. Grazie al professor Crea, mi sono appassionato di cardiologia. Ho trascorso un primo periodo di ricerca all’Imperial College di Londra nel 2007, per la mia tesi di laurea sull’infiammazione nelle sindromi coronariche acute (in sostanza nell’infarto). Successivamente, specializzazione e dottorato di ricerca sempre all’università Cattolica di Roma – Policlinico Gemelli. Ho trascorso un anno in Inghilterra a Cambridge presso il Royal Papworth Hospital Nhs Foundation Trust, dove mi sono formato come cardiologo interventista eseguendo diverse centinaia di angioplastiche coronariche».

E poi è tornato in Italia?
«Sì, successivamente ho lavorato per alcuni anni a Milano presso il policlinico San Donato. Sono poi rientrato al Gemelli dove attualmente lavoro come cardiologo interventista e cardiologo di Terapia intensiva coronarica».

La potremmo inserire, dopo questo suo premio, nel filone (per sua natura generico) di “cervelli in fuga” dalla Basilicata. Lei pensa che molti giovani “fuggano” via dalla regione per mancanza di opportunità oppure crede sia giusto e sano che ognuno segua la sua strada, faccia esperienze fuori casa e vada a vivere e lavorare altrove?
«Diciamo che la scelta di fare Medicina mi ha obbligato a uscire dalla mia terra. Tuttavia credo che sia positivo andar via, confrontarsi con realtà diverse, arricchendosi. Consiglio ad ogni lucano di uscire dalla propria terra. Il problema non sta nel fatto che un lucano esca dalla propria terra (la qual cosa come ripeto è un motivo di arricchimento, e non bisogna criticare chi decide di andar fuori). Il problema sta, invece, nell’esistenza delle condizioni per poter ritornare, portando nella propria terra il frutto dell’esperienza fatta fuori. Se il flusso è solo in uscita, è normale che tutto ciò generi inevitabilmente solo impoverimento».

Che tipo di legame ha con la sua terra natale?
«Mi sento profondamente un lucano, e sono orgoglioso della mia terra. Così come sono orgoglioso quando vedo un conterraneo emergere per le sue capacità, siano esse imprenditoriali, scientifiche eccetera. In Basilicata ho la mia famiglia, tanti amici e tante persone care a cui sono legato. Torno un paio di volte l’anno per qualche giorno di vacanza e far conoscere ai miei figli la mia terra, i miei posti, i valori con cui sono cresciuto.
Un ringraziamento speciale va alla mia famiglia, a mio padre e a mia madre, per avermi educato all’importanza del lavoro, della dedizione, della semplicità e dell’umiltà. Un bagaglio di valori che mi porto dietro e che mi ha permesso di raggiungere i miei obiettivi».

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