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Il San Carlo di Potenza, sede dell'Azienda ospedaliera regionale

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GRAZIE a chi ieri ha trovato un attimo, in queste giornate complicate, per esprimere solidarietà a giornali, ai siti, alla Cgil, nel mirino del direttore generale del San Carlo, il quale nel mezzo della peggiore pandemia degli ultimi cento anni, ha pensato di scodellare una querela temeraria e intimidatoria (LEGGI LA NOTIZIA). Siete stati davvero tanti e questo ci conforta. Certo, ci sono anche quelli che hanno guardato a rendiconti personali e politici e si sono voltati dall’altra parte. Quelli che commentano, con la presunzione di essere democratici, progressisti e liberali, anche la caduta di una foglia, e che invece stavolta si sono distratti. Non ci stupisce. Sappiamo di che pasta sono fatti questi personaggi che hanno scambiato la politica per un ascensore o un bancomat.

Due riflessioni la vicenda della querela del San Carlo le merita ancora. Qui non c’è nulla di personale. Siamo professionisti, abbiamo chiaro qual è il nostro ruolo. Con tutto il rispetto, il dirigente al centro della questione fino a qualche tempo fa era uno qualunque. Neanche il suo curriculum ci aiutava a capire qualità e doti. Ma questo non significa nulla e non inficia il valore della persona.

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Questa storia è figlia di un sistema politico marcio, del quale abbiamo già denunciato limiti e difetti lo scorso anno, quando in Regione c’erano vessilli di colori diversi. È un discorso che va oltre il San Carlo. Tocca da vicino come la classe politica lucana e non solo sceglie le persone cui affidare i posti e le mansioni più delicate. Non ci vogliono esperti e cervelloni per intuire che la meritocrazia l’abbiamo gettata nel cestino. La classe dirigente di ieri e quella di oggi hanno lo stesso difetto: scelgono direttori, manager, presidenti, consiglieri di enti e società secondo logiche di convenienza. Misurando la scala della fedeltà non quelle delle capacità. Questo è il punto che interessa davvero i lucani: il diritto di avere nei posti chiave, delicati, fondamentali, gente capace. Vale per tutti i settori. Perché poi arrivano le pandemie, le emergenze sanitarie e si rischia tutti di brutto. Ma una comunità può stare tranquilla se nel bel mezzo di una catastrofe si pensa più a spaventare i giornalisti che a garantire un’assistenza che metta a riparo migliaia di vite umane?

La parola cambiamento tanto sbandierata dal nuovo feudatario di via Verrastro è stata ancora una volta disattesa: è rimasta solo uno slogan vuoto, buono per i social, la propaganda, quel tam tam che stordisce senza risolvere e far capire. Se ci fosse stato il cambiamento, proprio la sanità lucana, al centro di una grave inchiesta della magistratura, avrebbe dovuto subire gli scossoni più forti. Invece no. Perché nelle logiche della casta, si sceglie la fedeltà, chi dice sì, chi aiuta la ricerca del consenso e non chi è bravo ma magari ha la grave macchia di essere indipendente.
La querela ai giornali è stata giustificata con le necessità di difendere l’immagine del San Carlo. Ma quando mai? Dall’inizio dell’emergenza, medici, infermieri, addetti sanitari sono stati lasciati soli. Mandati allo sbaraglio senza mascherine e altri strumenti protettivi. Quando c’è stato il goffo tentativo di rafforzare o commissariare (fate voi) il reparto di terapia intensiva, non c’è stato nessuno che sia sceso in campo per tutelare l’onore, il lavoro, l’abdicazione, il sacrificio di centinaia di persone. Non abbiamo letto e ascoltato una sola parola di difesa. L’offensiva contro la stampa libera lucana nasce da disagi e difficoltà personali. Ma allora scenda in campo da solo, con legali pagati da lui e non dalla comunità. Nessuno si è mai sognato di infangare il San Carlo, fino a poco tempo fa gioiello della sanità del Sud e non solo. I fatti lo dimostrano. Adesso invece è diventato un luogo impossibile anche per chi ci lavora. Un presidente di Regione può anche sbagliare una scelta, se diventano due la cosa è sospetta. E i lucani hanno il diritto di sapere
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