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Emilio Colombo (1920-2013)

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POTENZA – Come si fa a giudicare – cioè ad averne un giudizio storico – la figura di Emilio Colombo a cento anni dalla nascita, anniversario che cade esattamente oggi?

C’è un intervallo molto ampio fra gli estremi di questa figura. Fra il Colombo che dà lustro – come si diceva un tempo – alla sua regione e alla sua città, Potenza, arrivando ai massimi livelli delle istituzioni (è il politico che ha avuto più incarichi di governo della storia repubblicana dopo Giulio Andreotti) e il Colombo che doveva essere votato dai preti e che si accaparra anche i voti dei malati mentali appositamente guidati nell’urna da zelanti suorine. Fra il Colombo che porta lavoro e sviluppo e il Colombo che quel lavoro e quello sviluppo se lo fa pagare ancora una volta in termini di servilismo elettorale. Fra il Colombo che giganteggia, agli occhi dei contemporanei, davanti ai tremebondi balbettii dei politici attuali e il Colombo che ammette, senatore a vita, di fare uso di cocaina, seppure a uso medico.

Come sempre, conviene far parlare i fatti. Certo, al di là dei fatti c’è un oceano di voci sulla sua vita, sulle sue abitudini, sulle sue preferenze. Ma ogni voce è – fino a conferma ufficiale, per quanto si cristallizzi come certezza assoluta – un’illazione. E come tale va trattata.

FORMAZIONE
Colombo nasce dunque l’11 aprile del 1920 a Potenza. Da ragazzo entra nella scia spirituale e organizzativa di due monsignori che segneranno la storia recente della chiesa lucana, Augusto Bertazzoni e prima ancora Vincenzo D’Elia, di cui è chierichetto. Quest’ultimo – amico di don Luigi Sturzo – non è solo un pastore di anime: conosce bene quanto conti per la causa cattolica che le pecorelle, quelle più capaci, imparino a destreggiarsi nella politica. Colombo, così ben istruito e che di capacità non difetta, diventa ben presto segretario della Giac, la Gioventù di Azione Cattolica.

Il triangolo del giovanotto dalle belle speranze ha i due vertici della base nella sua casa del centro storico e nella chiesa della Trinità (perno del notabilato cattolico, nella quale si troveranno i suoi confessori). Ma il terzo vertice presenta un angolo decisamente acuto: è a Roma, là dove convergono le ambizioni dell’ancora imberbe ma già maturo Emilio, che dopo il liceo (classico, ovviamente, il glorioso Quinto Orazio Flacco del capoluogo lucano) si laurea in Legge nell’Urbe senza perdere neanche una sessione.

Dopo aver preso in considerazione la carriera accademica, s’instrada decisamente su quella politica. Si candida all’Assemblea costituente e viene eletto, nonostante Francesco Saverio Nitti lo avesse definito «sagrestanello», quasi non ne presagisse le fortune, o forse per paura di quel ragazzino che si permette di sfidarlo alle elezioni (e che lo batte sonoramente). Di Colombo si potrebbe dunque dire, innanzitutto, che ha contribuito a scrivere la Costituzione italiana. E già ce ne sarebbe d’avanzo. Ma qui comincia tutto, e si può snocciolare il curriculum del nostro, per il quale aggettivi come “impressionante” non danno bene l’idea.

CURSUS HONORUM
Ha avuto 40 incarichi di governo, firmato 1.626 progetti di legge, presentato 140 atti di indirizzo e controllo fra interpellanze, interrogazioni, mozioni e ordini del giorno (e per chi non sia all’opposizione è decisamente tanto), prodotto 140 interventi in aula. E’ stato ministro di Agricoltura e foreste, Commercio con l’estero, Industria e commercio, Tesoro, Bilancio e programmazione economica, Grazia e giustizia, senza portafoglio “con delega per i compiti politici particolari e di coordinamento, con speciale riguardo alla presidenza della Delegazione italiana all’Onu”, Affari esteri, Finanze. Oltre che presidente del Consiglio, dal 6 agosto 1970 al 17 febbraio 1972 (suo vice era il celebre giurista socialista Francesco De Martino).

E’ stato presente alla Camera dalla prima alla undicesima legislatura, il che significa che l’aula era praticamente casa sua e vi è entrato e uscito, fra scappellamenti comprensibilmente sempre più deferenti, dall’8 maggio 1948 al 14 aprile 1994: includendo i due anni dell’Assemblea costituente dal 1946, quando fu eletto con 26.000 voti, si sfiorano i 48 anni di presenza continuata.

Poi abbiamo degli anni di “buco”, nei quali la sua presenza è più evanescente. Infine il ritorno come senatore a vita, nelle legislature dalla XIV alla XVI, fino alla morte il 24 giugno 2013, quasi una buggeratura del destino che lo ha visto andarsene alla vigilia del giorno in cui si celebra l’anniversario dell’insediamento della Costituente.

Ma questa è la carriera vista nel suo chassis, nel telaio istituzionale su cui è stata impalcata. Lo scheletro, diciamo così, della sua esistenza. In mezzo c’è la polpa e l’anima di una vita ben più ricca di avvenimenti (e di dettagli, per non parlare delle

sfumature) di quanto possano raccontare gli annuari di Montecitorio o di Palazzo Madama.

LO SVILUPPO LOCALE
Colombo, dicono i suoi estimatori, portò lo sviluppo al Sud. Colombo, dicono i suoi detrattori, usò il potere per portare al Sud scampoli di sviluppo con lo scopo di perpetuare lo stesso potere.

Di sicuro gli si può accreditare la contitolarità o l’iniziativa di non pochi piani di sviluppo che ebbero importanza decisiva nelle sorti del Mezzogiorno e della sua Basilicata.

Basentana: nome proprio della strada statale 407, nodo viario che ha risolto non pochi problemi di collegamento fra Potenza e lo Jonio, è un suo merito, ad esempio. La sua realizzazione era stata pensata per il vagheggiato sviluppo dell’industria in Valbasento.

Il 30 luglio del 1961 l’allora presidente del Consiglio Amintore Fanfani aveva posto la prima pietra nella Valle del Basento del complesso petrolchimico dell’Anic e degli stabilimenti Montecatini e Ceramica Pozzi. Era presente anche un altro gigante di quegli anni, il patron dell’Eni Enrico Mattei. Accanto a loro proprio Colombo, all’epoca ministro dell’Industria.

Ma sono ormai decenni che quei progetti occupazionali e di sviluppo sono evaporati, nonostante premesse e promesse. E la Basentana è rimasta lì, strada da cowboy nel deserto, un’auto ogni tanto tranne le domeniche d’agosto quando c’è un po’ di traffico per andare a sciacquarsi nell’acqua di Metaponto.

C’è però un’altra strada fondamentale per il meridione, come ricordava in un’intervista del 2009 a Cristina Vercillo del Quotidiano del Sud il politico calabrese Dario Antoniozzi: «La Salerno-Reggio tecnicamente non è un’autostrada, questo nessuno lo sa. E’ una superstrada Anas con caratteristiche autostradali, senza pedaggio. Come spesso succede al Sud, per le solite beghe e le solite liti calabresi, erano stati fatti scadere i termini per la vendita delle obbligazioni Iri con cui si creava il capitale per realizzare le autostrade. Facemmo una riunione privata Mancini, Misasi, Nucci, Colombo e io. Colombo disse a Mancini: “Sono pronto a dare i fondi all’Anas perché faccia la Salerno-Reggio”».

E così nacque la strada simbolo del Sud, fondamentale arteria che innerva parte del Mezzogiorno, i cui lavori sono durati decenni.

PENSARE IN GRANDE
Ma è un modo sbagliato di parlarne, quello di limitarsi ai tentativi di far decollare il Sud (in parte riusciti, se l’emigrazione dalla Basilicata, forse anche grazie alle sue iniziative, si arresta negli anni Sessanta). L’appellativo tipico di Colombo – e se ne sarà adontato il fan che, fino a questa riga, non l’ha letto – è “statista”.

Quando morì scrisse di lui il britannico Daily Telegraph: «Emilio Colombo (…) è stato uno degli artefici della Comunità europea. E’ stato coinvolto nella creazione della politica agricola comune (Pac), e, con la tedesca Hans-Dietrich Genscher, ha avviato quello che è diventato il mercato unico e il Trattato di Maastricht».

Ora, immaginiamoci i ras locali che si riempiono la bocca con paroloni come “governance” alle prese con quei progetti epocali; poi saliamo anche di livello, e figuriamoci anche i massimi esponenti della politica italiana; e poi spingiamoci oltre, e prendiamo a modello gli esponenti della politica internazionale. Onestamente, riusciamo a immaginare qualcuno capace di sognare così in grande? Di compiere miracoli di design istituzionale del genere? Risulta difficile, vengono in mente pochi nomi, fagocitati magari da interessi e meccanismi più grandi di loro. E invece, uno capace di immaginarsi tutto ciò, e di lavorarci seriamente, proveniva dalla piccola città di Potenza, allevato da un paio di monsignori. Non male per il “sagrestanello”.

LO STILE
Non ha il calore dell’uomo meridionale, Colombo. Sembra possedere un aplomb britannico che fa a cazzotti con le origini, un distacco temperato da modi gentili e fare da signore. Ma non è distanza dagli “inferiori”, come li avrebbe definiti Paolo Villaggio, bensì frutto di un’educazione rigorosa, ultracattolica, inaccessibile alle intemperanze dell’affetto e del calore umano. Poi, con gli amici veri, è affabile e dicono anche spiritoso.

Non gli si può attribuire grettezza ma al contrario generosità, se è vero che la fila che si registra davanti alla sua porta a ogni suo ritorno in patria non è fatta solo di clientes politici ma anche di questuanti puri, la cui massima aspirazione è sbarcare il lunario per qualche giorno. E Colombo non lesina aiuti.

L’ERRORE POLITICO
Alle elezioni per il senato del 2001, Colombo non viene candidato dal suo Ppi, figlio della Dc. Chissà se per un puntiglio o per calcolo, se per vendetta o per rabbia, abbandona il partito.

Due anni più tardi compie quello che oggi potrebbe essere considerato un clamoroso errore di valutazione, un disperato tentativo di restare nel mondo che lo aveva visto protagonista per un cinquantennio o, semplicemente, una gran sciocchezza: cambia partito. Si candida al Senato per Democrazia Europea, il partito dell’ex segretario generale della Cisl, Sergio D’Antoni.

Lo annuncia peraltro in un convegno nella sala del Principe di Piemonte, a Potenza, in un’ambientazione poco consona alle passate glorie.

La decisione sarà duramente punita dagli elettori: non solo non sarà eletto ma finirà terzo, con poco più di 11.000 voti, lui che era stato presidente del Parlamento europeo, eletto con oltre un milione di voti, e a ogni votazione raccoglieva messi di preferenze.

Poi arriva la sanatoria, la spugna che lava via l’onta: la nomina a senatore a vita, il 14 gennaio 2003. E gli ultimi dieci anni di Colombo tornano nell’alveo della politica che conta.

LA MACCHIA
Ma nello stesso anno, il 2003, Colombo si presenta spontaneamente davanti ai sostituti procuratori Giancarlo Capaldo e Carlo Lasperanza che hanno appena arrestato due uomini della Finanza. Avevano con sé della cocaina appena acquistata da una terza persona. «La cocaina era per me. Sono un assuntore da non molto, non più di un anno, un anno e mezzo. I finanzieri non sapevano assolutamente niente, telefonavano soltanto ma non erano a conoscenza di che cosa si trattasse», dichiara Colombo.

E perché la prendeva? «A scopo terapeutico», afferma il senatore a vita. La vicenda si chiude ufficialmente là. Qualcuno lo fa sapere ai giornali. Colombo si arrabbia tantissimo, aveva chiesto «massima riservatezza».

C’era una prescrizione medica per l’uso terapeutico della coca? Non lo si è mai saputo. Nessuna conseguenza per il politico. Ma il fatto si pianta come un dardo avvelenato, come una freccia infuocata, nel corpo della storia colombiana. Molti dicono: è stato un galantuomo, ha scagionato i due della scorta. Ma può un senatore a vita, uno che per diventarlo ha “illustrato la Patria”, come dice la motivazione, far acquistare della droga a due finanzieri, ignari di cosa stiano facendo? Di domande ce ne stanno tante. Non avranno mai una risposta.

LO SFREGIO
Alla fine di una vita di questo tipo, fra ovazioni di piazza a ogni comizio per lustri e tentativi di boicottaggio da parte dei comunisti che ne conoscevano la potenza elettorale; dopo aver incontrato i grandi della Terra (ed essersi sentito tale); dopo aver immaginato l’Italia e l’Europa del futuro; dopo essere stato osannato al novantesimo compleanno con convegni e celebrazioni; dopo una vita di questo tipo, dunque, quale sarebbe stata la giusta commemorazione nella sua città? Un funerale di dimensioni tali da creare problemi di ordine pubblico, si sarebbe detto.

E invece, nella cattedrale di Potenza ci sono più politici, giornalisti e carabinieri in alta uniforme che semplici cittadini. Meno di quelli che vanno al matrimonio della figlia di un qualsiasi notabilucolo di provincia.

Perché? Forse la perdita del potere, della potestà decisionale su quanto viene fatto non diciamo a Roma ma in Basilicata. Forse la semplice ingratitudine umana: tanti sono i potentini e i lucani che devono a lui l’impiego in uffici pubblici e privati per sé e per i propri parenti. Chissà.

LA MEMORIA
Nel 2008 Colombo si trasforma in un cartoon, pagato dalla Regione Basilicata, scritto da Gianluca Caporaso, diretto da Gianluca Lagrotta e doppiato, fra gli altri, dallo stesso politico.

La sua esistenza è stata ripercorsa, dopo la morte, in “Emilio Colombo – L’ultimo dei costituenti”, volume della Laterza curato da Donato Verrastro ed Elena Vigilante.

Nell’impossibilità di organizzare convegni e mostre fisiche per l’emergenza coronavirus, comunque il Circolo Silvio Spaventa Filippi di Potenza, il Circolo La Scaletta di Matera, il Centro Studi Internazionali “Emilio Colombo” (sezione del Centro di Geomorfologia Integrata per l’Area del Mediterraneo che lui aveva creato) e l’Associazione dei Lucani a Roma, con la Regione Basilicata, hanno istituito un comitato promotore per le celebrazioni del centenario della nascita. In particolare il Centro Studi lancia un apposito sito web, in rete da questa mattina alle 11 all’indirizzo www.centenarioemiliocolombo.it, con una serie di documenti.

IL GIUDIZIO
Alla fine, torna la domanda: come si fa a giudicare la figura di Emilio Colombo? Tante le luci, lunghe le ombre. Quando il giornalista Leonardo Sacco ne scrive in “Il cemento del potere” – usando gli strumenti dello storico al servizio dell’inchiesta giornalistica – documenta lo sviluppo di un “partito dell’edilizia” che governa una specie di feudalesimo urbano vorace, pianifica il potere e il cui personaggio-chiave è proprio Colombo.

Forse l’errore è farne mito. Ingigantirne il ricordo facendone una sorta di semidio. Emilio Colombo non fu una “figura”, ma un uomo. «Homo sum, humani nihil a me alienum puto», scriveva il commediografo Publio Terenzio Afro circa 2.200 anni fa. «Sono un essere umano e non considera estraneo a me nulla di ciò che è umano».

Nessuna contraddizione. Un uomo, sospeso come tutti fra il bene e il male.

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