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Maria Rita Bagalà

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NOCERA TERINESE – «Alla luce di comportamenti univoci caratterizzati da reiterazione e stabilità che rivelano la consapevole adesione della ricorrente alle politiche espansionistiche del padre (capo della consorteria) e delineano un ruolo dinamico e perdurante nel tempo dell’indagata in seno alla compagine associativa». Lo scrive la sesta sezione della Corte di Cassazione, presidente Anna Petruzzellis, nella sentenza con cui a gennaio scorso la Cassazione ha rigettato il ricorso dell’avvocato Mario Murone, legale di fiducia dell’avvocato Maria Rita Bagalà, 52 anni, figlia del boss Carmelo, 82 anni (anche lui in carcere) per la quale dopo il rigetto del ricorso della Cassazione alla fine di gennaio scorso si sono aperte le porte del carcere (LEGGI) dopo che da maggio scorso era ai domiciliari.

A ottobre scorso era rimasta agli arresti domiciliari dopo che la Cassazione (e prima ancora il tribunale del Riesame) aveva rigettato la richiesta di revoca dei domiciliari nei confronti dell’avvocato Maria Rita Bagalà, ritenuta la «mente legale del clan» nell’ambito dell’inchiesta “Alibante” scattata fra Nocera Terinese e Falerna, coordinata dalla Dda.

La Dda aveva insistito per la custodia cautelare in carcere per la stessa indagata (respinta dal gip che aveva invece disposto i domiciliari quando a maggio scorso scattò il blitz antimafia), ma Maria Rita Bagalà restò ai domiciliari (ad Aosta) perché il legale della donna presentò ricorso (respinto alla fine di gennaio scorso) in Cassazione sul sì del Riesame al carcere.

Secondo le accuse, l’avvocato figlia del boss avrebbe curato anche gli interessi economici e finanziari del sodalizio. Secondo l’ordinanza firmata a maggio dal gip Matteo Ferrante, la donna aveva assunto anche il ruolo di prestanome della società Calabria Turismo srl ed era l’intestataria dei beni patrimoniali e delle quote societarie della consorteria «costituenti il provento illecito della varie attività delittuose del clan».

Per la Cassazione, che ha depositato oggi i motivi della sentenza, il ricorso non è fondato e va pertanto rigettato: «appare immune da censure l’impianto argomentativo – costituito non solo dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Pulice e Norberti e della teste Mendicino, ma anche e soprattutto dai dati intercettativi – posto dal Tribunale a fondamento della ritenuta sussistenza, in capo alla indagata, dei gravi indizi di colpevolezza in ordine al reato di partecipazione ad associazione mafiosa dell’imputazione provvisoria. E ciò alla luce di comportamenti univoci caratterizzati da reiterazione e stabilità che rivelano la consapevole adesione della ricorrente alle politiche espansionistiche del padre (capo della consorteria) e delineano un ruolo dinamico e perdurante nel tempo dell’ indagata in seno alla compagine associativa che, per la sua organicità, non si attaglia alla ben diversa figura dell’extraneus a cui la consorteria si rivolge, in singole occasioni, per la risoluzione di specifiche problematiche. La ricorrente aveva gestito nel tempo le vicende attinenti alla società Calabria Turismo, prima come socio occulto ed amministratore di fatto e successivamente come socio di diritto, avendo acquisito le quote sociali dopo una serie di rinunce dei prestanome storici, determinate dall’emissione di interdittiva antimafia. In tale contesto padre e figlia, intercettati, avevano concordato circa la possibilità di inviare Francesco Marchione presso la Cardannone Group S.r.l. per intimidire Renzo Cardamone (con riguardo alla resistenza manifestata nella retrocessione delle quote in favore della Bagalà con la contestuale rinuncia al credito nascente da tale cessione in ragione della natura simulata dell’intestazione)».

E ancora: «L’indagata era altresì risultata intestataria delle quote della Sole S.r.I., altra società riconducibile a Carmelo Bagalà, detentrice dei terreni per i quali Bagalà aveva corrotto il sindaco Costanzo al fine di giungere al loro cambio di destinazione d’uso e alla successiva lottizzazione. Risulta inoltre documentalmente accertato che la stessa aveva realizzato nel tempo varie intestazioni fittizie di immobili e di società serventi agli illeciti scopi del gruppo mafioso. Orbene, l’ampiezza e la obiettiva rilevanza delle condotte di coinvolgimento dell’indagata nelle varie vicende imprenditoriali legate al padre e agli interessi della cosca, come descritti nelle convergenti propalazioni accusatorie dei plurimi collaboratori di giustizia oltre che desumibili dall’inequivoco tenore delle conversazioni intercettate, giustifìcano logicamente l’apprezzamento di merito circa la qualificazione delle medesime condotte in termini di effettiva partecipazione ad associazione mafiosa».

Per la Cassazione, inoltre, «il Tribunale del riesame, con motivazione congrua e logicamente ineccepibile, ha sottolineato l’assenza di segnali univoci che attestino una rescissione dal contesto associativo nel quale la ricorrente ha operato».

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