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C’è chi cerca lungo la confluenza del Busento con il Crati la tomba di Alarico sperando di riempire con gli oggetti ritrovati (25 tonnellate d’oro e 150 d’argento) il nascente museo dedicato al re dei goti, c’è chi invece – il nuovo arcivescovo di Cosenza monsignor Francesco Antonio Nolè – facendo fare dei piccoli lavori di ristrutturazione nelle stanze della sua residenza in episcopio, ritrova – casualmente – una bella tela di San Francesco di Paola, che da quasi 200 anni era stata “nascosta” per abbassare un soffitto troppo alto.

Il prelato lucano, da luglio 2015 responsabile della diocesi cosentina, proviene dalla famiglia religiosa dei francescani conventuali, un ordine mendicante diverso da quello fondato dal taumaturgo paolano. Ora la tela, che attende un piccolo restauro, è visibile da tutti perché è stata lasciata in una delle stanze adibite a sala d’attesa per chi desidera incontrare l’arcivescovo. Il quadro sconosciuto ai più, ha una buona fattura, San Francesco è con il cappuccio in testa (secondo gli studiosi di iconografia del paolano il cappuccio rappresenta l’urna della carità) ed ha in bella evidenza un bastone, che il santo ha portato dall’età di 48 anni quando si ruppe il femore. San Francesco non si fece un auto-miracolo ed in quella circostanza ebbe a dire «per un mese fratello corpo ora deve riposare».

Il bastone secondo molti devoti cosentini (ma anche paolani) San Francesco lo utilizza ancora oggi per “bastonare” chi gli si rivolge per una grazia, ma poi non cambia vita e non si mette sulla strada del Vangelo. Da tempo vado osservando e studiando che nelle immagini di San Francesco venerate nell’Italia meridionale il bastone di legno è sostituito da una semplice canna.

In un bellissimo libro sulla storia della presenza dei frati minimi a Corigliano Calabro, padre Giovanni Cozzolino, racconta la storia di padre Girolamo Molinari (un frate venerabile nell’Ordine dei Minimi) che ebbe in visione San Francesco (a Corigliano lo chiamano ‘u viecchij) che gli consegnò una canna da mettere dietro il portone del convento, che era stato preso di mira da una incursione turca. Risultando vano il tentativo dei musulmani di forzare la porta i coriglianesi si organizzarono per costringere i turchi alla ritirata. Ora un pezzo di quella canna è conservato in un reliquiario proprio nella Chiesa di Corigliano.

La fragile canna è dunque diventata un simbolo identitario dell’amore del taumaturgo paolano contro chi vuole imporre con la forza la propria religione. Chi vedrà la tela ritrovata casualmente in episcopio si ricordi che anche dalla fragilità può nascere una grande forza… quella dell’amore.

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