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Il luogo dell'omicidio

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COSENZA – Era un commando di specialisti quello che, due giorni fa, ha ucciso il boss Leonardo Portoraro davanti al suo bar-ristorante di Villapiana in provincia di Cosenza (LEGGI LA NOTIZIA).

Qualora ve ne fosse bisogno, lo dimostrano i 35-40 colpi di kalashnikov esplosi contro la sua auto dei quali solo uno non ha centrato il bersaglio designato. Sicari professionisti, dunque, forse venuti da lontano, solisti del mitra che hanno eseguito con coordinazione raggelante un delitto studiato nei minimi dettagli e con largo anticipo.

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L’auto su cui viaggiavano, infatti, era stata rubata un mese prima a Rossano, segno ulteriore di un crimine pianificato da una cabina di regia che, per il momento, non ha confini territoriali, ma potenzialmente abbraccia tutta la Sibaritide e oltre. Non a caso, il sospetto degli investigatori è che per eliminare uno del calibro di Portoraro sia servita una decisione condivisa da parte dei clan presenti sul territorio e, soprattutto, un’autorizzazione dall’alto, in questo caso dalle cosche cirotane che nelle questioni criminali della costa jonica esercitano un po’ il ruolo di Cassazione. Al momento è solo una pista, l’altra porta invece a vendette ataviche, magari covate per anni contro un sopravvissuto delle vecchie guerre di mafia, uno al quale gli investigatori attribuivano la paternità di tanti omicidi tra gli anni Ottanta e Novanta. Responsabilità che non sono mai state provate in via giudiziaria, ma che qualcuno potrebbe aver dato per assodate vestendo, trent’anni dopo, i panni della Nemesi.

È una possibilità, indebolita però dallo stile paramilitare dell’agguato che, almeno sulla carta, rimanda a logiche più attuali e articolate. L’unica certezza, pertanto, è che Portoraro si muovesse su un sentiero irto di pericoli provenienti sia dal passato che dal presente. Aveva tanti nemici, ciò nonostante il modo in cui è caduto dimostra che non nutriva particolari timori per la propria vita, unico errore di valutazione di una carriera criminale per il resto esemplare. Tornato in libertà nel 2006 si era letteralmente inabissato. Mai avuto più guai con la giustizia, solo un avviso di garanzia nell’ambito della maxioperazione “Omnia” con posizione poi archiviata. Per il resto, si era reso invisibile, continuando però a tessere la sua tela. Di questo, almeno, sono convinti gli investigatori della Dia che in una relazione del 2015 danno per acquisita la sua «espansione criminale» favorita anche da un’alleanza con il clan dei nomadi. C’è chi, però, queste cose le diceva addirittura tre anni prima.

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