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Mirella Spadafora in una foto d'epoca (la donna è nel tondino cerchiato in rosso)

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«MA CHI, Mirella?». Il classico giro di telefonate tra vecchi amici è da ieri sera l’occasione, per una generazione, di rivivere gli anni settanta di fermento e politica nella Cosenza bifronte, l’«a-città» dello storico Tobia Cornacchioli che ne definì la sua vitalità benché fosse un non-luogo, la provincia colta e piena di circoli, politici cinematografici culturali. Manifesto e Mondo Nuovo, la federazione del Pci a corso Mazzini 1.

Mirella Spadafora, la 68enne trovata morta ieri sera nel suo appartamento di via Sybaris (LEGGI) era una figlia di questa Cosenza: un bel volto alla Lina Sastri, la pelle olivastra, la frangetta. Il fatto che non si trovino sue foto né tracce sui social dice già molto della figura riservata di attivista.

Assistente sociale in carcere, Spadafora era una dipendente, ora in pensione, del fu Ministero di Grazia e giustizia. Aveva trasferito nella pratica quotidiana del lavoro la propria attitudine alla socialità coltivata per anni ai tempi dell’Arci: lo scrigno di via Santoro – c’era la Pretura lì vicino, davvero un’altra èra – fino alla fine dei Settanta fu una fucina di cervelli e iniziative; trattava il colpo di Stato in Cile con la formula dell’info-tainment, ospitava Lina Wertmüller e Gian Maria Volontè, Basaglia e il regista impegnato Beppe Ferrara.

E sicuramente Mirella era tra i privilegiati ascoltatori di “Libertà obbligatoria” di Gaber, che un giorno fu comprato da un compagno – si poteva ancora dire – e diffuso nella sede per un religioso ascolto collettivo finito nel più classico “dibbbbbbattito”.

Quasi dieci anni prima – era il 1968 –, con Sandra Onofrio e Ottavio Dodaro, Mirella appena 15enne aveva fondato un piccolo gruppo teatrale, L’Orologio, che iniziò a lavorare sul testo di Vincenzo Ziccarelli “Un caso di morte apparente”. Nel frattempo Cosenza ribolliva e di lì a poco (1972) sarebbe nato il Quartiere, «collettivo teatrale di intervento politico», da una costola del Gruppottanta. Il 9 giugno dell’anno prossimo sarà passato mezzo secolo.

Nella sede del Quartiere, in “piazza dei cuculli” (due L, vecchio toponimo legato non ai dolci tipici ma alla ancestrale lavorazione della seta che qui aveva un’enclave produttiva), uno slargo con alberi altissimi e fontanella incastonato tra le Vergini e il vecchio liceo classico “Telesio”, si vivono gli anni del teatro come impegno politico, con il verbo di Brecht e Ionesco e la missione della divulgazione fin nella piazza più remota della Calabria: il palco come diffusione di partecipazione democratica e non fruizione elitaria, meno “Rendano” più Vaccarizzo.

Si trattava in un certo senso di un ritorno alle origini perché la mamma di Mirella era apprezzata sarta nella vicina piazza Duomo, conosciuta come la “madama” con tanto di atelier – anche se allora si diceva “casa e putìga” – e alcune modiste cresciute alla sua scuola. Il percorso di Mirella Spadafora finisce invece nella nuova periferia di Cosenza. I primi titoli «non escludono» l’omicidio – come da freddo formulario della cronaca giudiziaria – ma molto più probabilmente si è trattato soltanto del malore di una donna sola in una casa resa ancora più silenziosa da questo anno di sofferenza collettiva che sta trasformando le perdite in numeri e ci sta quasi immunizzando ai lutti. «Ma chi, Mirella?».

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