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Dalia Aly

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La pagina Instagram Call out Valentini-Majorana, che ha scoperchiato la pentola su episodi di sessismo, bullismo e molestie sessuali denunciati da alcune studentesse nel liceo di Castrolibero, non chiuderà fino a quando la dirigente Iolanda Maletta non si dimetterà.

Prima della straordinaria reazione degli studenti che stanno occupando la scuola ad oltranza, erano stati gli admin delle accuse social a subire il primo tentativo di bavaglio. La dirigente aveva infatti minacciato (e poi concretizzato) una querela per diffamazione se quel profilo anonimo non fosse stato cancellato.

È stato allora che la pagina ha avuto un nome e un volto, quelli di Dalia Aly, ventenne cosentina ex allieva del liceo, che ha fatto outing anche per proteggere le altre ragazze che gestivano la pagina.

«Loro hanno scelto coraggiosamente di denunciare le violenze – dice – e quando la preside Maletta ha parlato di diffamazione e i miei genitori in Calabria sono stati contattati dai carabinieri, ho deciso di espormi io per evitare che loro potessero essere identificate».

Raggiungiamo al telefono Dalia, che vive ora a Milano e studia fashion design. È una delle ragazze che accusano un professore del Valentini di ripetute molestie verbali (e per qualcuna approcci veri e propri anche fisici) all’interno della scuola, ma lei in quel liceo ha subìto un’altra violenza, il revenge porn perpetrato da uno studente, che ha diffuso suoi video privati di contenuto sessuale per screditarla durante la campagna elettorale per i rappresentanti di istituto, dove erano entrambi candidati.

QUEL VIDEO FINITO SU TELEGRAM

Quando Dalia, scoprendo che la sua intimità era finita su un canale Telegram, ha presentato una denuncia contro ignoti e si è rivolta alla preside, già in quell’occasione non ebbe solidarietà. Dalla dirigente soltanto parole dure, che l’hanno gelata.

«Davanti a mio padre – racconta – mi disse che non avrei dovuto farmi filmare, che questi comportamenti rovinano il romanticismo dell’amore e che mia nonna, che lei aveva conosciuto, si sarebbe vergognata di me. Non dimenticherò mai come mi ha trattata». La denuncia per revenge porn è stata presentata nel dicembre 2018, quattro anni dopo il processo è ancora in corso.

«Il giorno in cui quel video è stato condiviso – dice Dalia – era il 25 novembre, quell’anno data delle elezioni per i rappresentanti di istituto, una coincidenza che poi mi è sembrata cruciale. Io lo avevo girato un anno prima con un ragazzo che credevo innamorato di me, invece subito dopo aver ottenuto il video è diventato scostante e in breve mi ha lasciata. Ho scoperto che lo aveva fatto con altre ragazze di Cosenza, con lo stesso copione: fingeva amore per convincere le fidanzate a farsi filmare e diffondere i video tra gli amici. Io e le altre siamo state usate solo per questo scopo».

«NON È REVENGE PORN, MA CONDIVISIONE NON CONSENSUALE»

La rete è incontrollabile, sconfinata: da un piccolo gruppo di spettatori, quel video approda su Telegram e diventa difficile fermare il flusso della condivisione. A Dalia non piace la definizione di revenge porn, per una volta l’immediatezza della lingua anglosassone non rende affatto l’idea. «Revenge – spiega – significa vendetta, fa intendere che la vittima abbia fatto qualcosa per cui viene punita. E il porno non c’entra niente, lì ci sono attori e il sesso viene filmato per la fruizione di altri. La definizione corretta che io sto cercando di divulgare è “condivisione non consensuale”».

Femminista intersezionale, Dalia ha creato su Instagram un podcast, “Fai la signorina”, dove tratta di varie tematiche di violenza non soltanto sulle donne, insieme ad altre attiviste o semplicemente testimoni di bullismo, discriminazione o bodyshaming. Ma il patriarcato si combatte anche parlando di libertà sessuale e lei non ha paura degli hater se pubblica immagini del proprio corpo o rompe i tabù sull’uso dei sex toys.

MASCHILISMO E CATCALLING

Non mancano gli incidenti di percorso, soprattutto fuori dai social, nella vita vera dove resistono le radici del maschilismo più becero: un servizio fotografico girato a Piedigrotta, nell’incantevole spiaggetta davanti alla chiesa scavata nella roccia, si è trasformato in occasione di abbordaggio.

Ovvero: vedi una ragazza in topless e ti senti autorizzato a provarci con lei in modo volgare. Il catcalling non è una leggenda e stavolta l’inglese è azzeccatissimo perché Dalia è stata raggiunta anche dai classici versi per chiamare i gatti…

Della vicenda con il professore di matematica, ricorda una dimensione di disagio inconsapevole. La coriacea cultura sessista (che in quella scuola proprio il professore in questione sobillava tra gli studenti maschi verso le femmine mascherandola di goliardia) assorbita anche dall’ultima generazione di donne, crea una camera stagna di emozioni contraddittorie, dentro la quale è difficile distinguere il bene dal male. Anche per questo Dalia rivendica il rispetto per le scelte e i tempi delle vittime.

IL SOSPETTO: “PERCHÉ NON AVETE DENUNCIATO SUBITO?”

Il Me Too calabrese partito da Castrolibero si porta addosso le identiche allusioni di rivittimizzazione del movimento nato nel cinema hollywoodiano. “Perché non avete denunciato subito” non è mai una domanda innocua, è un sospetto.

«Il percorso non è uguale per tutti e comunque anche chi non denuncia non è meno vittima. Non è un battito di ciglia, e io lo so bene. Chi accoglie le denunce non ha alcuna sensibilità e in questi anni ho vissuto situazioni umilianti… ovviamente, per dirne una, mi hanno chiesto, anche in modo aggressivo, perché avevo fatto quel video. Sono microviolenze, anche queste».

Il caso Valentini ha suscitato un’imponente onda di solidarietà tra gli studenti e le famiglie, oltre che sui media. Ma quella domanda che in realtà è un sospetto aleggia anche da queste parti, come in ogni storia di violenza sulle donne.

«CHI MOLESTA È UN MOLESTATORE, PUNTO»

L’epiteto coniato da Enrico Mentana e poi ripreso da molti media, “prof porcone”, non è edificante, per nessuno. È persino un modo per dare connotati erotici, evocando il dirty talking: «In camera da letto va bene chiamare qualcuno porcone, ma chi molesta è un molestatore, punto».

La ragazza dietro la pagina Instagram non si è fatta spaventare dal rischio di essere riconosciuta responsabile di diffamazione e dover pagare 150.000 euro, cifra che, secondo Dalia, Maletta avrebbe reso così esplicitamente nota con l’intento di scoraggiare nuovi interventi degli studenti sul social.

«LA PRESIDE SI DIMETTA»

«La vittoria più importante è quella sociale e sono sicura che per noi sarà così. Chiediamo che la preside si dimetta perché in quella scuola le molestie sono il culmine di un ambiente di omertà e ipocrisia, che si reggeva anche sulle piccole cose, sui divieti per l’abbigliamento. Noi studentesse non potevamo mettere le gonne corte sopra il ginocchio ma le insegnanti sì. La dirigente ogni anno il 25 novembre parlava di panchine rosse e invitava a denunciare le violenze, ma per tutelare il “buon nome” della scuola non ha preso provvedimenti contro una persona accusata di fatti gravissimi».

C’è chi invoca il rispetto della privacy per il professore (il cui nome a Cosenza ormai non è un segreto) e la sua famiglia, fin quando i reati non saranno accertati. E pure qui, sulla legittima e dovuta presunzione di innocenza, soffia però quell’odioso sospetto su chi lo denuncia.

«IL “ME TOO” CALABRESE NON PUÒ NASCERE DA UNA MENZOGNA »

«Un me too di questa portata – conclude Dalia – e una mobilitazione di così tante persone non avviene per niente o su una menzogna. Tutto quello che abbiamo detto è vero. Mi dispiace per la famiglia del professore che sta soffrendo, ma avrebbe dovuto pensarci prima lui, che ha creato da solo ciò che gli sta accadendo. Esattamente come soffre la sua famiglia, hanno sofferto le sue vittime. Noi, che lo abbiamo avuto in classe subendo violenze verbali, psicologiche e fisiche che ci hanno vessate, ogni giorno, per anni».

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