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Gianfranco Ruà

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COSENZA – Anche lui, al pari di tanti altri, è stato arrestato nell’ambito dell’operazione “Garden”, ha subito 26 anni e mezzo di condanna per l’omicidio di Pino Chiappetta e poi un ergastolo nel processo “Missing” per svariati delitti commessi durante la guerra di mafia.

Gianfranco Ruà è in carcere dal 1994 e, da allora, non ne è mai uscito. Appartiene a pieno titolo a quella generazione cosentina cresciuta a pane e malavita, ma a differenza di tanti altri, senza l’attenuante dell’emarginazione o del degrado sociale e familiare. Nel suo caso, l’adesione al crimine è spontanea, estetica, legata a un’amicizia. Un’amicizia sbagliata.

Poco più che ventenne si distingue già all’interno del gruppo di Franco Pino, abile rapinatore e rapido di grilletto, lega il proprio nome a quello del boss e ne diventa in poco tempo il delfino, l’uomo forse a lui più vicino. Quando a dicembre del 1981, un commando si presenta ad Amantea per giustiziare Francesco Africano, muoiono anche due innocenti colpevoli solo di trovarsi sulla linea del fuoco. In seguito, i pentiti diranno che a sparare è stato proprio Ruà. E che gli è bastata una sola pallottola per ucciderli tutti e tre. Il suo mito oscuro si alimenta anche di queste gesta, vere o inventate che siano.

Contrario all’ortodossia mafiosa, non accetterà mai di battezzarsi secondo i riti della ’ndrangheta. All’iniziazione, preferisce di gran lunga l’azione. Le cronache dell’epoca lo vogliono protagonista di colpi arditi, tra cui anche l’assalto a un treno, e soprattutto di tanti omicidi. Una vita fa, perché il Ruà ergastolano è oggi una persona molto diversa da allora.

Coinvolto in progetti sociali per detenuti, passa i suoi anni dietro le sbarre a studiare, interessandosi anche di meditazione. Di lui, restano agli atti le parole pronunciate durante un’udienza di “Garden”, una sorta di manifesto generazionale: «Pino per noi era un idolo, seguivamo tutto quello che diceva lui, era giusto non era giusto, noi lo eseguivamo alla lettera. L’abbiamo voluto bene, l’ho voluto bene forse più di un fratello, però adesso con la nostra carcerazione si è preso la libertà. E questo insomma, lui, il capo, è fuori e noi qua non si sa quando usciremo (…) Era un’infatuazione, lui era come lo portavano i giornali, insomma, uno si innamorava di lui, delle sue gesta, delle sue cose e ci siamo andati dietro. Ci sono andato dietro».

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