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La statua delle Colombe di Baccelli

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Cosenza non è una città moribonda perché qualche organo amministrativo ha dichiarato il dissesto delle casse comunali. Cosenza lo è perché sono i suoi abitanti a trascinare le proprie vite, in maggioranza incuranti di tutto tranne che del loro apparire, ancora un po’ somiglianti a quelle mature coppie che ben vestite, sottobraccio, e con passo altero, consumavano i marciapiedi del corso principale qualche decennio fa.

Andata persa per sempre l’innocenza provinciale che la caratterizzava, resistono come in una cartolina non completamente sbiadita i suoi tanti luoghi-simbolo sparsi tra i magnifici palazzi della città vecchia o nei quartieri del primo Novecento sorti lungo i due fiumi che la attraversano. Come resistono ancora i colori tenui dell’allora moderna città, costruita tra le due guerre con stile e linguaggio razionalista e adornata dalle alte palme che rievocavano qua e là il fascino decadente delle città coloniali. Niente a che vedere con le molte brutture della città nuova che, rapidamente sviluppatasi verso nord, lascerà poche tracce di bellezza alle future generazioni.

Come nessuna traccia di bellezza lascerà l’unione di fatto con la moderna Rende, negli anni allungatasi sino al torrente Campagnano, con i suoi quartieri residenziali dove molto ceto medio cosentino decise di trasferirsi attratto dalle sirene del nuovo e degli spazi verdi promessi, su cui la retorica riformista sulla città moderna costruì i suoi successi elettorali, mascherando l’impronta fortemente speculativa della lobby dei costruttori di diretta emanazione del governo comunale dell’epoca, socialista nei simboli ma fortemente padronale nei fatti.

Non a caso, a distanza di non molti anni sono ben visibili i segni fisici del declino, in mancanza oltretutto di una identità civica sempre sbandierata ma di fatto inesistente. Anche il grande spazio verde attrezzato che simboleggiava l’epopea della Rende moderna e attrattiva e che divideva/univa i due territori, passati i primi anni di fulgore, oggi fa mostra del suo degrado tra aria maleodorante e ratti giganteschi. La stessa incuria e lo stesso degrado che si ritrovano sulla identica direttrice, ma in territorio cosentino, dove percorrendo la nuova ma già mal tenuta pista ciclabile che scorre all’interno del parco Green, si respirano a pieni polmoni i puzzolenti miasmi provenienti dal torrente Campagnano, cloaca a cielo aperto proprio dove i due territori si incontrano, sintesi perfetta e simbolica della merda, questa sì finalmente unita, che si riversa più avanti nel fiume Crati.

Tutto così perfettamente normale, con gli spazi verdi ridotti a ora d’aria per bambini che saltellano su giochi sporchi e sgangherati, accompagnati da adulti frettolosi che, tra una distratta attenzione e un rimbrotto, non smettono di alzare gli occhi dall’inseparabile smartphone. Nessuna differenza con chi a pochi metri di distanza porta a pisciare altrettanto frettolosamente il suo adorato cagnolino.

D’altronde è cosi dappertutto, anime e luoghi dissestati come i rifiuti sparsi ovunque, democraticamente presenti in ogni angolo della città e del suo hinterland, ormai arredo infelice ed immutabile del paesaggio urbano.

Tutto così perfettamente normale.

Come normale, ma soprattutto inutile, è il cicaleggiare autoreferenziale di qualche intellettuale o presunto tale che ogni tanto, tra una progressione di carriera e un progetto europeo da curare, tira fuori il naso dalla zona confortevole di Arcavacata e, attento a non urtare sensibilità amiche, disserta su Cosenza e area urbana senza lasciare a chi legge nemmeno una flebile traccia di analisi critica o anche di solo stimolo.

Nessuna meraviglia, visto che è nota da anni l’assenza o al di più l’ininfluenza dell’intervento pubblico proveniente dall’Unical, esamificio attento solo a non perdere prebende e posti nelle classifiche di mercato, che svolge diligentemente il ruolo sancito dalle riforme degli ultimi decenni e nei fatti anestetico di ogni reale istanza e di ogni passione cognitiva proveniente dal basso.

E a proposito di normale inutilità, molto cool sui social e su qualche giornale locale on line è invece il giornalismo della nostalgia, specchio di quelli che oggi sono tra i quaranta e i cinquanta anni o forse anche più, che scrivono e dibattono degli anni belli che furono della migliore (la loro) gioventù che stazionava in piazza Kennedy per ultimo negli anni ‘90 allora ancora adornata dalle colombe di Baccelli. E’ un sequel che va avanti da tempo (prima i mitici anni ‘80, of course). In assenza di reale dibattito pubblico, se non quello edulcorato e autoreferenziale (il massimo livello raggiunto è massomafia vs paladino della giustizia in presenza di cittadino corrotto o al massimo coglione) tipico dei nostri anni, la rappresentazione mortifera dell’assenza di quella piazza che fu solo dell’apparire ottiene il suo meritato posto nell’olimpo del nulla. E a proposito di nulla il prossimo passo della nuova amministrazione cittadina, impegnata spasmodicamente a ripristinare con piglio interventista una viabilità cittadina buona per gli anni ‘80, sarà quello di riportare tra un tripudio di folla la vecchia statua dell’incolpevole Baccelli nel suo posto naturale. Almeno così i nostri nostalgici concittadini, si potranno di nuovo strusciare sotto le ali protettrici delle colombe e rinvigoriti fare anche qualche “vasca”. E anche l’ex sindaco potrà, sempre più allarmato, denunciare l’inizio dell’epoca buia della restaurazione dopo il decennio della luce. I serissimi professori in collina invece, continueranno antropologicamente ad occuparsi di quanto erano belle un tempo le commesse della Standa.

E sempre a proposito di luci sfuocate, molta parte del centro cittadino – dove stoicamente resistono ancora tre librerie, qualche negozio di pregio e poco altro, vista anche la montagna di negozi chiusi – è diventata in buona parte il luogo del cibo o meglio, dell’ingozzo gaudente di cibo fasullo e tossico, che ha ripreso tra l’altro vigore dopo la salutare pausa pandemica. Locali del bere (molti) sparsi ovunque pronti ad accogliere le schiere di giovanissimi, ma soprattutto i numerosi frequentatori del quotidiano happy hour tra cui spiccano plotoni di legali rampanti, consulenti professionali, arrampicatori sociali, politici in momentanea gloria oltre che gli immancabili borghesi piccoli piccoli in cerca di nuova collocazione dopo la modaiola partitella a padel. Quelli più avanti negli anni, tra risate e battutine da rotocalco anni ‘60 anelano l’eterna giovinezza tra chimica e chirurgia di sostegno. Competizione sociale e alcool che a volte camminano di pari passo con le manie di Pitigrilli più che con la Recherche di Proust.

Dal gioco a volte grottesco che muove il quotidiano della città sono ovviamente esclusi i tanti scarti che la attraversano. Invisibili e non, che resistono da sempre alle intemperie della vita. Gli inadatti, i disagiati e gli eterni ribelli che ancora si ostinano ad osservare con stupore le stranezze, ma anche le piccole meraviglie del mondo. Ed è proprio qui che si ritrova ancora un fragore di umanità e di bellezza, esattamente come quella che ritrovai in giorno di aprile di un anno fa quando in molti si raccolsero a ricordare Carlo Cuccomarino, amico caro e attivista sociale, al quale questa comunità dovrebbe essere riconoscente. E anche allora come adesso la giornata era bella e soleggiata in Piazza Parrasio sul Corso Telesio. Le parole si disperdevano oltre le mura del Duomo, l’arcivescovile, il Caffe Renzelli e la piazzetta Toscano e se alzavi lo sguardo scorgevi la maestosità del palazzo Arnone con la Sila a fare da sfondo.

Il respiro era profondo e la mia città era ancora una volta, nonostante tutto, bellissima.

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