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COSENZA – Ginnastica delle emozioni, questo si fa ai concerti di Capossela. Anche nel gioiello che è il teatro Rendano di Cosenza («questo posto è troppo bello, e qui non si fuma e non si fa questo e non si fa quello, ma la nostra ginnastica è sporca, beve, fuma e balla. Lo faremo lo stesso) sold out, finiti anche i posti in piedi, dove lunedì sera ha fatto tappa con il suo tour Rebetiko Gymnastas.
 Voce roca, baffi finti, bombetta rossa come la maglietta, nere le bretelle e nera la giacca poggiata  sulle spalle, spalliere svedesi sullo sfondo, la sua band e il teatro completamente al buio. La musica è servita. Che all’improvviso ti senti di essere in uno di quei locali greci, pieni di fumo e vino, parole sussurrate e malinconia. Il rebetiko incanta e trascina. Un disco “suonato in greco”, come a saldare un debito nei confronti della terra che «ha donato al mondo la civiltà» e «una delle più straordinarie musiche urbane del mondo: il rebetiko», appunto. Musica di denuncia, blues greco. Musica che nasce dalle crepe dell’anima e cerca di riempirle. Musica da sentire con il corpo, da vivere con il cuore, e cantare con la mente. «È musica che viene dal basso, che si condivide a tavola, come un’eucarestia». 
Sul palco ci sono i suoi coccolati musicisti, a partire da Manolis Pappos, barbuto virtuoso del bouzouki (elemento catalizzatore sul palco, con il suo faccione, seduto impassibile per tutta la durata del concerto). Un concerto in cui Capossela non si è risparmiato, ha cantato le sue canzoni arrangiate sul ritmo del rebetiko, ha omaggiato “l’anarchico genovese” (il Fabrizio De Andrè di Quello che non ho), Markos Vamvakaris di Primo ministro, ha intonato il canto di protesta del 1873, “Dimmi bel giovane” («La casa è di chi l’abita è un vile chi lo ignora, il tempo è dei filosofi»). E ancora prima, Enzo Del Re con la sua Lavorare con lentezza, «io amo il lavoro ma non la fatica smisurata che certi comportano, oggi non c’è la giusta distribuzione tra pesi e compensi».
C’è il Vinicio, anarchico e “contro”, «io per la classe operaia, da cui mi fregio provenire, sarei disposto a dare la vita, ma per Marchionne, Riva e Berlusconi, non sono disposto a dare un cazzo». C’è il richiamo all’Ilva, «ancora in Italia si ripropone il ricatto tra sicurezza e lavoro». Mancano quattro giorni alla fine del mondo, «ci prepariamo sicuramente al meglio, ma c’è qualcosa ancora di cui chiedere scusa». 
Ci sono i suoi grandi classici che fanno scendere giù il teatro, da Marajà a Che cossè l’amor. E ancora le struggenti Non è l’amore che va via, Con una rosa. Per non dimenticare, le “vecchie” che diventano emozione nuova arrangiate in chiave rebetika: Contrada Chiavicone, Tanco del Murazzo, Contratto per Karelias, Corre il soldato, Scivola vai via, Non trattare. Il suo “Rebetiko mou” e la nota Misirlou (una versione per chitarra elettrica suonava nella colonna sonora di Pulp Fiction), per passare poi a “Cancion de las simples cosas”, versione italiana di un brano già cantato dall’argentina Mercedes Sosa e dalla messicana Chavela Vargas, «perché alla fine ognuno torna sempre dove amò la vita». C’è una versione “nuova” di “Come prima” di Tony Dallara. «Una canzone dei tempi di mio padre, la vorrei cantare con voi, come in un festoso karaoke». Ma il pubblico in platea è timido. E dai palchi la voce giunge lontana eppure forte. 
Prima del roboante finale, una San Vito da urlo, con il teatro che si alza in piedi per ballare (e il fumo, la luce che flashava e Vinicio con in testa una maschera da caprone infernale», un omaggio sentito e non dovuto ai calabresi, «che dicono sempre la verità» e gli ricordano il manga, quello della copertina del suo album che è del francese David Prudhomme, autore del fumetto Rebetiko (La mala erba) «che i prodromi della rivoluzione francese partirono dal regno di Napoli, e i calabresi fecero più che la loro parte». Capossela, tornato sul palco per il bis, ha fatto un dono al pubblico del Rendano, che ha commosso anche le frange più conservatrici presenti in sala, ha musicato il “Te deum dei calabresi” testo attribuito a  Gian Lorenzo Cardona (un lucano). 
Un testo dal disperato sarcasmo risalente agli anni della dominazione borbonica. «Nui cridimu firmamenti / Che sit’unu e siti trii / Tutti trii onnipotenti, / Unu Deu non già tri Dii. / Diciarannu li marmotti, / Ch’è nu jocu a bussolotti; / Nui pirò strillami tutti; / Viva Deu di Sabautti

COSENZA – Ginnastica delle emozioni, questo si fa ai concerti di Capossela. Anche nel gioiello che è il teatro Rendano di Cosenza («questo posto è troppo bello, e qui non si fuma e non si fa questo e non si fa quello, ma la nostra ginnastica è sporca, beve, fuma e balla. Lo faremo lo stesso) sold out, finiti anche i posti in piedi, dove lunedì sera ha fatto tappa con il suo tour Rebetiko Gymnastas. Voce roca, baffi finti, bombetta rossa come la maglietta, nere le bretelle e nera la giacca poggiata  sulle spalle, spalliere svedesi sullo sfondo, la sua band e il teatro completamente al buio. La musica è servita. Che all’improvviso ti senti di essere in uno di quei locali greci, pieni di fumo e vino, parole sussurrate e malinconia. Il rebetiko incanta e trascina. Un disco “suonato in greco”, come a saldare un debito nei confronti della terra che «ha donato al mondo la civiltà» e «una delle più straordinarie musiche urbane del mondo: il rebetiko», appunto. Musica di denuncia, blues greco. Musica che nasce dalle crepe dell’anima e cerca di riempirle. Musica da sentire con il corpo, da vivere con il cuore, e cantare con la mente. «È musica che viene dal basso, che si condivide a tavola, come un’eucarestia». Sul palco ci sono i suoi coccolati musicisti, a partire da Manolis Pappos, barbuto virtuoso del bouzouki (elemento catalizzatore sul palco, con il suo faccione, seduto impassibile per tutta la durata del concerto). Un concerto in cui Capossela non si è risparmiato, ha cantato le sue canzoni arrangiate sul ritmo del rebetiko, ha omaggiato “l’anarchico genovese” (il Fabrizio De Andrè di Quello che non ho), Markos Vamvakaris di Primo ministro, ha intonato il canto di protesta del 1873, “Dimmi bel giovane” («La casa è di chi l’abita è un vile chi lo ignora, il tempo è dei filosofi»). E ancora prima, Enzo Del Re con la sua Lavorare con lentezza, «io amo il lavoro ma non la fatica smisurata che certi comportano, oggi non c’è la giusta distribuzione tra pesi e compensi».C’è il Vinicio, anarchico e “contro”, «io per la classe operaia, da cui mi fregio provenire, sarei disposto a dare la vita, ma per Marchionne, Riva e Berlusconi, non sono disposto a dare un cazzo». C’è il richiamo all’Ilva, «ancora in Italia si ripropone il ricatto tra sicurezza e lavoro». Mancano quattro giorni alla fine del mondo, «ci prepariamo sicuramente al meglio, ma c’è qualcosa ancora di cui chiedere scusa». Ci sono i suoi grandi classici che fanno scendere giù il teatro, da Marajà a Che cossè l’amor. E ancora le struggenti Non è l’amore che va via, Con una rosa. Per non dimenticare, le “vecchie” che diventano emozione nuova arrangiate in chiave rebetika: Contrada Chiavicone, Tanco del Murazzo, Contratto per Karelias, Corre il soldato, Scivola vai via, Non trattare. Il suo “Rebetiko mou” e la nota Misirlou (una versione per chitarra elettrica suonava nella colonna sonora di Pulp Fiction), per passare poi a “Cancion de las simples cosas”, versione italiana di un brano già cantato dall’argentina Mercedes Sosa e dalla messicana Chavela Vargas, «perché alla fine ognuno torna sempre dove amò la vita». C’è una versione “nuova” di “Come prima” di Tony Dallara. «Una canzone dei tempi di mio padre, la vorrei cantare con voi, come in un festoso karaoke». Ma il pubblico in platea è timido. E dai palchi la voce giunge lontana eppure forte. Prima del roboante finale, una San Vito da urlo, con il teatro che si alza in piedi per ballare (e il fumo, la luce che flashava e Vinicio con in testa una maschera da caprone infernale», un omaggio sentito e non dovuto ai calabresi, «che dicono sempre la verità» e gli ricordano il manga, quello della copertina del suo album che è del francese David Prudhomme, autore del fumetto Rebetiko (La mala erba) «che i prodromi della rivoluzione francese partirono dal regno di Napoli, e i calabresi fecero più che la loro parte». Capossela, tornato sul palco per il bis, ha fatto un dono al pubblico del Rendano, che ha commosso anche le frange più conservatrici presenti in sala, ha musicato il “Te deum dei calabresi” testo attribuito a  Gian Lorenzo Cardona (un lucano). Un testo dal disperato sarcasmo risalente agli anni della dominazione borbonica. «Nui cridimu firmamenti / Che sit’unu e siti trii / Tutti trii onnipotenti, / Unu Deu non già tri Dii. / Diciarannu li marmotti, / Ch’è nu jocu a bussolotti; / Nui pirò strillami tutti; / Viva Deu di Sabautti

 

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