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COSENZA – Francesca (il nome è di fantasia) ha 24 anni. E quasi un terzo della sua vita lo ha già trascorso dietro le sbarre. Quando non era ancora maggiorenne aveva un sogno, insolito: voleva fare la calciatrice. Ora di quel vago desiderio resta traccia solo su un quaderno che, con scrittura da adolescente, usando due colori di penna per marcare le parole più importanti, scrive dal carcere di Castrovillari, dove dovrà restare ancora per un anno. Clara di anni ne ha diversi di più, ma anche lei trascorre le sue giornate, lunghe, in quell’edificio grigio. La sua storia è diversa. 

Sono tutte diverse. Lei si ritiene vittima di un amore sbagliato, malato, la cui onda nera l’ha portata fino in carcere. Anche lei, come Francesca, scrive la sua storia su un quaderno. Ma anche simbolicamente la sua vicenda si riflette qui: ha iniziato a scrivere dall’ultima pagina, dal lato sbagliato. Sono solo due della ventina di donne che scontano la pena per i loro errori nel carcere di Castrovillari dove, da maggio, sembra essere entrato un filo di luce e di speranza, grazie a un gruppo di volontarie e alla disponibilità del direttore Fedele Rizzo, che insieme alla responsabile del progetto Maria Pia Barbaro, hanno dato a queste detenute una motivazione. Gomitoli di lana e di filo, uncinetto e ferri una dozzine di detenute si sono messe all’opera grazie alle sapienti indicazioni di Francesca Caputo e Maria Esposito e all’idea del gruppo Mammachemamme, associazione cosentina dedita alla cura a tutto tondo della maternità, che con Annamaria Artese, Samuela Chindamo e Ilaria Dapino (ma anche alle altre due socie non coinvolte in prima persona Erica Gallo e Cecilia Gioia) ha preso l’impegno di entrare ogni venerdì pomeriggio in quel carcere per un progetto che porta le detenute ad impegnare utilmente il loro tempo, a socializzare, ad avere la possibilità, per quanto piccola, di avere un ricavato economico dai lavori che escono dalle loro mani. Che poi potranno destinare ai loro figli e alle loro famiglie. 
«Un’esperienza inizialmente difficile – ci spiega Annamaria Artese – quando tornavo a casa, i primi tempi, portavo dentro di me l’angoscia di quel luogo per almeno due giorni. Ma poi, con il tempo, entrare in confidenza con quelle donne mi ha fatto superare tutto e ora sono felice di portare avanti un progetto che si basa esclusivamente sulle nostre forze». Anche a livello economico. Le volontarie pagano di tasca loro benzina e materiale da offrire alle detenute per confezionare i capi destinati alla prima infanzia, e quando riescono a venderne qualcuno non tengono per loro nemmeno il rimborso delle spese. 
«Ci piacerebbe che qualcuno, anche i cittadini, potesse darci una mano per questo progetto meritorio – dice ancora la Artese – A Cosenza, ad esempio, una piccola merceria si è messa a disposizione per raccogliere offerte. Chiunque può recarsi nel negozio e lasciare pagato un gomitolo di lana o una matassa di filo, poi noi prendiamo il materiale e lo consegnamo alle detenute. Si chiama Lady Cristy e si trova in corso Luigi Fera 156. Noi speriamo che qualcuno possa fare un gesto di solidarietà verso queste donne». Intanto le creazioni escono dalle mani delle detenute lasciando dietro piccole scie di soddisfazione. Per quante non avevano mai preso in mano un uncinetto, vedere nascere babbucce e copertine colorate è già un piccolo miracolo. Uno stimolo che potrebbe rappresentare l’appiglio dal quale partire per distogliere la mente dai brutti pensieri. Per tessere una trama diversa nella loro nuova vita lontano dalle sbarre.
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