X
<
>

Condividi:
4 minuti per la lettura

CASOLE BRUZIO – “Jurillu”, “Marchetta”, “Drago”, “Niurone”. Nomi, anzi soprannomi, che sembrano tratti da un romanzo cavalleresco, circondati da un alone di mistero e di leggenda. Così come leggendarie appaiono le gesta di questi personaggi, le cui storie rappresentano uno spaccato importante del nostro passato, ma che spesso sono rimaste sottotraccia, giunte a noi per lo più tramite i racconti orali tramandati da generazione in generazione. Il brigantaggio postunitario fu uno dei fenomeni più importanti e incisivi della storia calabrese, un periodo da cui trasse origine una serie di conseguenze e di avvenimenti che segnarono per sempre la nostra regione.

E il territorio della Presila cosentina, da secoli terra di briganti, legò in modo particolare la sua storia a quella di questo fenomeno. Perché proprio in quelle zone operò una delle bande più celebri tra quelle presenti in Calabria: quella di Pietro Monaco e di sua moglia Ciccilla, la donna-capo, l’amazzone cavallerizza, coraggiosa e sanguinaria, ma anche tormentata e passionale, una delle figure più incredibili del nostro “recente” passato. Una storia dai contorni che per anni sono rimasti sfumati quella di Pietro Monaco e Ciccilla, riportata alla luce e chiarita in molti dei suoi aspetti, qualche anno fa, grazie al lavoro di ricerca di Peppino Curcio che, mettendo mano finalmente ai documenti dell’Archivio di Stato fino ad allora riservati (atti processuali, testimonianze, provvedimenti), ha potuto ricostruire con dovizia di particolari l’azione dei due briganti. E proprio il lavoro di Curcio ha fatto da ispirazione per la realizzazione del film “Ciccilla”, che lunedì 9 novembre alle 17.30, verrà proiettato in prima visione al Cinema Modernissimo di Cosenza. A girare la pellicola i registi Mario Catalano, Paride Gallo e Giuseppe Salvatore, membri del circolo culturale “Prometeo 88” di Casole Bruzio, associazione che da quasi 30 anni è promotrice di iniziative culturali di vario genere nel territorio presilano. A interpretare il film, se si esclude la partecipazione del noto Giovanni Turco, è un gruppo di attori non professionisti del comprensorio, con tanto di camei per i registi e per lo stesso Peppino Curcio che ne ha firmato anche la sceneggiatura. I luoghi delle riprese, gli stessi in cui si mossero i protagonisti del tempo: dal centro storico di Casole, dove nacque Ciccilla, a Macchia di Spezzano Piccolo, dove viveva Pietro Monaco; dalla casella di Pratopiano dove Monaco fu ucciso, al Palazzo Ricca di Catanzaro, dove Ciccilla fu processata; per finire allo studio napoletano di Dumas, la cui penna raccontò lungamente della storia dei due briganti.

«L’idea era quella di realizzare un corto – ci raccontano i registi durante il nostro tour tra i vicoli di Casole – poi è nato qualcosa in più». Quel qualcosa in più è un film che ripercorre le tappe principali della vita di un personaggio affascinante e al contempo inquietante. Maria Oliverio, alias Ciccilla, sposò Pietro Monaco nel 1858, a soli 17 anni, e a lui (e per amore di lui) legò la sua esistenza fino alla morte, sulla quale ancora aleggia il mistero più assoluto (sebbene la tradizione vuole che ella venga rinchiusa nel lager di Fenestrelle). Una storia torbida, fatta di amore e gelosia, di sangue e violenza. Una donna capace di uccidere con 48 colpi di scure sua sorella Teresa, amante di Pietro; di unirsi alla banda del marito e di assumerne la guida (quindi non normale “druda”, la donna del capo, ma vero e proprio capo); di macchiarsi e di agire da protagonista nelle efferate azioni criminali della banda: 32 i capi di imputazione documentati nel processo di Catanzaro, tra omicidi, rapine violente a mano armata (grassazioni), furti e intimidazioni; capace di far tagliare la testa al marito ucciso dai suoi luogotenenti e di bruciarla in un castagno, per evitare lo sfregio della processione trionfale del “cimelio” da parte degli esecutori. E poi la fuga, la cattura avvenuta nelle grotte di Caccuri nel febbraio 1864, il processo, la condanna a morte e l’imprevedibile grazia direttamente concessa da re Vittorio Emanuele II, episodio finora sconosciuto. Un’esistenza incredibile, quindi, che a più di 150 anni di distanza torna alla luce e che merita di esser conosciuta. E ora, quando i giovani della Presila cosentina si sentiranno dire dai più anziani, a mo’ di spauracchio, la frase “mò basta, ca si nno fazzu cumu a Ciccilla” sapranno cosa vuol dire.

Condividi:

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

EDICOLA DIGITALE