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Alcuni stand della fiera

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COSENZA – Il portafoglio griffato «Prado» allo stand dove sta appiccicata la scritta «Solo merce firmata»; Silvia la sensitiva di Pompei che per 10 euro ci dice che «certo, l’amore ritornerà»; Antonino Corona da Palermo con le padelle che fabbrica da sé; Giovanni Farina direttamente da Soriano con i suoi dolciumi sparsi per i tre gazebo che frutteranno al Comune «circa 300 euro, considerata la metratura»; il tunisino Umar, accompagnato da suo figlio allievo dell’Ic Spirito Santo, che vende piatti e ceramiche colorate; il banco dei giochi dove puoi sparare a una lattina e se la prendi puoi vincere un panda gigante (e menomale che era la manifestazione della pace e della speranza); e poi caramelle gommose, zucchero filato, pannocchie, «mastazzuali e nuciddri», caramello filante e kebab. “Stories”, queste ultime, dalla “splendida cornice” in cui, da ieri fino a lunedì 25, si tiene l’atipica (siamo ad aprile) fiera di San Giuseppe.

Ed è appunto in questo mese tutto socialista – del resto la manifestazione è partita proprio nel giorno del compleanno del compianto Giacomo Mancini e poi è stata ardentemente desiderata dal sindaco Franz Caruso – che l’iniziativa, dopo due anni di fermo dovuti alla pandemia, taglia il nastro d’avvio.

A primo acchito l’affluenza è però scarsa (dove sono gli studenti con le scuole chiuse?) e i 500 espositori sembrano tali solo sulla carta (si ricorda che all’edizione 2019 se ne contavano 1000). L’atmosfera non è più, insomma, quella dei ricordi – Cosenza a San Giuseppe si trasformava in una vera e propria Macondo che attendeva gli espositori venuti da lontano e le loro invenzioni all’ultimo grido – bensì plumbea, silenziosa, mesta. A ogni modo la fiera inizia su viale Mancini, in prossimità della sopraelevata che sta all’altezza dell’ultimo lotto di via Popilia. Il benvenuto, pertanto, lo danno i cartelloni affissi sulle impalcate di cemento, in primis quello ancora presente di «Leo Battaglia alla Regione». Subito superata la struttura e le due tende della Croce Rossa ci si immerge così in questo (breve) serpentone.

D’altronde se per innamorarsi – dice qualcuno – servono 5 minuti o non basta l’eternità, per visitare l’evento fieristico è uguale: ci si impiega ben poco, considerando che la merce degli espositori si ripete e le novità risultano quasi nulle. A tal proposito, tocca segnalare lo slancio nostalgico di una delle bancarelle: Vittorio, di Cosenza, ha realizzato artigianalmente i cosiddetti “spaccapolsi”, le due palline legate da un unico filo – un must degli anni Novanta – che per l’appunto tramite il regolare movimento del polso possono essere sbattute l’una all’altra. Che ricordi. Che rumore. Poi: tende, abbigliamento di tutti i tipi, libri (spicca addirittura un’edizione del “Mein Kampf” di Hitler), lampadari e oggettistica svariata, la stessa che un manipolo di signore definisce in modo assai folcloristico «della pompa».

Illuminazioni ancora spente (trattasi della scritta “Tutti in fiera” e di leccalecca sparsi qua e là) penzolano inoltre da un palo all’altro della luce: hanno sostituito i “mitici” cerchi. Tra le altre cose lungo la striscia che passa davanti al carcere e si arresta poco prima del parco Nicholas Green, sbucano gli uomini della sicurezza. Ma – si può ribadire – nel giorno inaugurale il numero di gente è così esiguo che si cammina facilmente e non si riscontrano disagi. O forse no. Una criticità emergerebbe qualora si volessero ricordare le parole del primo cittadino che, nel corso della conferenza di illustrazione dell’evento, aveva assicurato che gli stand «non sarebbero mai e poi mai sorti sugli spazi verdi». Ebbene, le bancarelle si ergono quasi tutte sul prato.

Che succede, infine, a piazza Matteotti e cioè nella seconda zona dedicata alla fiera? Ecco, Giovanni Drogo ci avrebbe sguazzato. Questo prosieguo ideale della manifestazione infatti somiglia un po’ al deserto dei Tartari: i banchetti di vimini e piatti sono pochissimi, si contano sulle dita di una sola mano. Piante non pervenute.

Sempre stata crogiuolo di culture diverse, la fiera lo è anche stavolta. Tanti i ragazzi dal Senegal presenti, alcuni di loro dicono di essere «habitué della manifestazione» cosentina, solo che quest’anno, in termini di accoglienza, «non hanno saputo – puntualizzano – proprio nulla». «Dove dormirete?», gli si domanda. «Qui», rispondono indicando il prato. Il prato, dunque, all’ombra dell’ultimo sole di aprile oppure in tenda. Ce ne sono di fatti di molteplici di tende, tutte in fila, sotto a uno dei grandi palazzoni di nuova costruzione su viale Mancini. Si capisce che le stesse saranno il giaciglio di chi in questi giorni pur di vendere qualcosa si appellerà a San Giuseppe. O forse dovremmo dire – è il 21 aprile – a sant’Anselmo.  

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