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All’Unical di Rende sbarca Pier Paolo Pasolini con il sul Calderon nell’interpretazione di Andrea Renzi

RENDE – «C’è sempre bisogno di poeti» dice Andrea Renzi, protagonista di “Calderon”, lo spettacolo della compagnia Teatri Uniti, su un testo di Pier Paolo Pasolini, che debutterà al Teatro Auditorium dell’Unical giovedì e venerdì alle 20,45. Un testo che Pasolini scrisse ispirandosi a “La vita è sogno” di Calderon de la Barca ambientandolo, però, nella Spagna franchista del 1967. La regia è di Francesco Saponaro.

«C’è sempre bisogno di poeti – spiega Renzi – perchè abbiamo sempre bisogno della loro capacità di sognare, di immaginare un futuro diverso, oppure, come nel caso di Pasolini, addirittura di prevederlo».

E quanto servirebbe, ai tempi d’oggi, uno così?

«Tanto. Ma in realtà oggi quella che manca è l’attenzione alle anime così poetiche che sanno leggere la realtà con grande profondità. Manca l’attenzione alla poesia che è una guida alla realtà per ognuno di noi. E manca Pasolini. Calderon, è pieno della sua immaginazione, della sua forza poetica e politica».

Andrea Renzi quando ha incontrato Pasolini?

«Per la prima volta a scuola. Alle Medie una insegnante ci fece leggere “Ragazzi di vita”. E mi colpì molto quel linguaggio, quel modo di raccontare le cose, quelle frasi. Anzi, ne ricordo spesso una ancora oggi che era: eravamo ricchi e non lo sapevamo».

Oggi invece come siamo?

«Oggi ci crediamo tanto ricchi e invece siamo molto poveri. E il guaio è che se ne preoccupano in pochi».

Di questa povertà come se ne accorge un attore?

«Noi giriamo per le grandi città ma anche per i piccoli paesi e siamo un po’ come il medico condotto. Dal palcoscenico, vuoi per una risata che non arriva, vuoi per un applauso particolare, ci accorgiamo non solo dell’interesse culturale ma anche della tensione che c’è».

Recitare Pasolini aiuta?

«E’ un’occasione. Non capita più tanto spesso di misurarsi con lavori di autori così profondi e importanti, capaci poi di toccare temi attualissimi e di essere profetici».

Lei al cinema ha lavorato con Martone, con Ozpetek, con Benigni. Sorrentino le affidò il ruolo di coprotagonista de “L’uomo in più”: il suo Antonio Pisapia era una figura un po’ pasoliniana?

«Forse per l’amore per il calcio, sì. Per una certa ingenuità anche. E adesso che me lo chiede probabilmente anche per la capacità di sognare e per la determinazione, tipiche di un giovane di provincia che voleva imporsi da allenatore di calcio».

Qual è la differenza, il qualcosa in più, di Teatri Uniti?

«Che è un luogo in cui gli artisti si ritrovano e sperimentano aperture, connessioni, contatti. E tutti insieme si cerca di dare forma a una sorta di artigianato culturale».

Una compagnia del Sud che punta al mondo: forse siete anche la prova che l’impresa-teatro, quaggiù, si possa fare.

«Noi abbiamo iniziato giovanissimi semplicemente seguendo la nostra passione, che era quella di fare teatro e di portare in giro per il mondo i nostri lavori. Se siamo da fiducioso esempio per i giovani di qualunque sud, sarebbe una enorme soddisfazione e avremmo adempiuto alla metà del nostro dovere».

Tornando al cinema, è sempre in crisi come si dice o qualcosa sta cambiando?

«E’ da quando avevo 14 anni che sento ripetere che il nostro cinema è in crisi. Ogni tanto però si risveglia grazie ad autori che lo riportano in auge. Mi auguro che insieme agli aspetti economici e commerciali, l’industria cinematografica italiana possa riportare al centro la figura dell’autore. Questo farebbe davvero molto bene al cinema italiano».

Calderon è frutto anche di un progetto di residenza creativa al quale ha partecipato un gruppo di studenti dell’Unical. Dopo il debutto rendese sarà dal 9 febbraio al Piccolo di Milano.

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