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Enrico Montesano

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COSENZA – «Cosenza… Cosenza mi ricorda che io qui ho fatto il militare». Enrico Montesano fuma il sigaro e prima del debutto al Rendano del suo “Il Conte Tacchia” si lascia andare a qualcosa che gli ritorna dai cassetti della memoria. Le risate sono conseguenziali.

«Mi mandarono qui a fare il Car. C’era ancora ‘a cremagliera. Battaglione addestramento reclute Sila. Non c’era ancora la galleria, adesso c’è e da Paola a qui si fa subito. Insomma, arrivai qui e presi una bronchite, perché qui la notte fa freddo, e mi mandarono all’ospedale militare di Catanzaro. Lì mi misi a fare le imitazioni di medici, infermieri, suore e allora mi dissero: “ma che lo fai a fare tu sto militare?” E mi rimandarono a casa».

Dieci minuti di intervista per dare l’impressione della persona curiosa, che ama parlare con la gente delle città che ospitano i suoi spettacoli. Che si lascia incuriosire. Come quando gli si chiede se esistono ancora i “febbristi”, i fan del celebre film culto di Steno “Febbre da cavallo”, con lui e Gigi Proietti.

«Certo che esistono ancora – la risposta – anzi, poco fa parlando con una persona qui vicino al teatro mi diceva che un suo amico, proprio per quel film, si era innamorato dell’ippica, dei cavalli, e divenne un accanito giocatore. Poeraccio, gli si è rovinata la vita». Altre risate.

«Quel film fotografa un’epoca che non c’è più, quella delle sale corse dove si giocava solo ai cavalli – racconta – purtroppo le sale corsa non ci sono più. Forse soffre anche un po’ l’ippica e mi dispiace perché il cavallo è un animale straordinario».

La galleria dei suoi personaggi che ti affollano la mente è infinita. Veniamo però al Conte Tacchia. È giusto dire che quella commedia, con la regia di Corbucci, dopo 40 anni, è cresciuta, si è evoluta, in questa commedia musicale che sta girando i teatri di tutta Italia?

«Sono passati 40 anni e l’importante è che siano passati bene – dice Montesano – siamo nel solco della tradizione della commedia all’italiana di Garinei e Giovannini e che io ho fatto e mi pare che il pubblico gradisca. Come ha già gradito il Marchese del Grillo e Rugantino, degli anni appena trascorsi».

Esiste un erede artistico di Enrico Montesano?

«Beh, sì. Ci sarà. Sarebbe triste altrimenti. Ogni epoca esprime i suoi figli, i suoi prodotti. Sono diversi, perché variano i tempi, i gusti della gente. Ma ognuno di noi impara sempre da quelli prima. Anche io ho fatto così. Una volta, io facevo “Bravo” al Sistina, e vennero a trovarmi Walter Chiari e Delia Scala, per me due mostri sacri. Ricordo ancora che lei disse: “Vedi, Walter, Enrico è dei nostri”. Per me fu come vincere un Oscar. Io spero che qualcuno guardi, si interessi, si ispiri, impari e vada avanti».

Riscrivere questi spettacoli fa tornare con la mente un po’ a quegli anni?

«Sicuramente. A proposito del Conte Tacchia, come non ti torna in mente Vittorio Gassman, Paolo Panelli, mio padre in tantissimi film. Gassman, poi, era unico. Anzi, direi che ogni definizione sarebbe superflua».

Dopo tanti anni di carriera, c’è ancora qualcosa che avrebbe voglia di fare?

«Me ne vorrei annà in vacanza – e si ride ancora – mi piace fare delle cose che mi divertono. In tv, perché no, ma anche a teatro o al cinema, ma cercando di divertirsi perché se ti diverti tu trasmetti questa gioia, questa serenità anche al pubblico. E il pubblico se ne accorge».

Sul palco ci sono anche Michele e Marco Valerio, due dei suoi figli. Recitare con altri Montesano è una responsabilità in più?

«Sul palco si è soli. Ma loro sono ragazzi in gamba, educati, disciplinati. Marco Valerio ha fatto l’accademia, Michele fa il secondo anno perché gli è venuta questa fregola dopo essersi laureato in Scienze Politiche. Io pensavo che facesse altro, e invece…».

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