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MARANO MARCHESATO (CS) – Guardi Fortunato Cerlino circondato dai ragazzini a caccia di selfie e di colpo si accende in mente l’eterno dibattito sull’effetto che i film di mafia facciano sui giovani. Messaggi giusti, messaggi sbagliati, voglia di emulazione, sindaci della Locride che protestano per la messa in onda su Sky di Anime nere: dalle nostre parti ne abbiamo viste e sentite tante. Guardi Fortunato Cerlino e scopri che è lontanissimo dal personaggio del boss Pietro Savastano, della serie Gomorra, che gli ha dato tutta questa popolarità.

A Marano Marchesato, paesino di tremila abitanti poco più in là di Cosenza, trascorre una serata da Macrito, il locale visitato dallo chef Cannavacciuolo lo scorso inverno, e poi sale sul palco allestito per uno spettacolo musicale in piazza per salutare. Solo un “ciao”, tanto basta. E un “ricordatevi che un camorrista e n’omme e merda” (GUARDA IL VIDEO). Applausi, sorrisi, e la raffica di selfie.

Ce n’è per tutti. Guardi Fortunato Cerlino, barba e giacca, e pensi che dietro alla popolarità televisiva c’è dell’altro. Molto altro. Non serve Wikipedia, che si limita ai pur importanti lavori con Garrone (il primo Gomorra) e Marco Risi (Fortapàsc), per esempio. Questo attore di 45 anni viene da lontano. E da vicino, se lo si guarda dalla prospettiva calabrese: ha lasciato la sua Napoli a 17 anni per venire studiare alla sempre rimpianta Accademia di Palmi. Qui ha conosciuto persone che sono diventati amici, amici per la vita. Uno è Lindo Nudo, per esempio, seduto con lui al tavolo di Macrito (“Sta facendo grandi cose qui in Calabria”); e poi Peppino Mazzotta o Fabio Vincenzi. Da Palmi il salto verso la professione, il ritorno a Napoli, le scritture teatrali, le regie, i laboratori e gli spettacoli con Nekrosius, le esperienze all’estero.

Le difficoltà:

«Abbiamo conosciuto anche la fame, quella vera» racconta senza imbarazzo.

E allora partiamo da qui. Palmi, Calabria.

«Il fatto che quella Accademia abbia chiuso è stata una tragedia, una tragedia vera. Ricordo che all’epoca secondo Hystrio era la migliore accademia italiana dopo quella di Genova. Poi però dopo quattro anni iniziò la discesa fino alla sparizione, anche per cose non chiarissime dal punto di vista gestionale».

Cose frequenti purtroppo al Sud e in Calabria.

«Ma così non può più continuare. Noi abbiamo un talento enorme ma molto spesso ci autofustighiamo. Partiamo dal talento, invece, pensiamo a progetti che abbiano un lungo respiro, guardiamo avanti. E non cediamo al malaffare, combattiamolo, nelle cose di ogni giorno».

Detta così suona strano per chi deve la sua popolarità a un personaggio di tutt’altro spessore…

«A Pietro Savastano io devo moltissimo, sia chiaro. Ma le mie origini sono opposte. Io vengo da una famiglia diversa, dove sappiamo come guadagnarci il pane, magari soffrendo. Ed è stata forse questa distanza che mi ha dato la possibilità di vedere e raccontare come si sta dall’altra parte».

Perché i film, le serie tv, i libri sulla mafia hanno così tanta presa sulla gente?

«Non deve sorprendere. La tragedia greca ci ha insegnato che indagare sui nostri mali è una forma di autoanalisi. E l’azione vera non è quella che succede sul palco, ma è quello che succede all’interno dello spettatore. E noi come artisti, come attori, abbiamo la possibilità di cambiare le cose. Anzi, cambiarle forse sarebbe presuntoso, ma sicuramente abbiamo la possibilità di mostrare delle cose».

Raccontare un problema è già risolvere il problema?

«Guardi, con Peppino Mazzotta ne parliamo spesso. Oppure di recente mi è capitato di discuterne con Filippo Timi il quale mi diceva: se mentre recito c’è in sala un uomo che picchia la moglie e i figli, se torna a casa e non lo fa, già quella è una grande conquista. L’attore in fondo è questo, uno che fa esperienza virtuale ma vera di emozioni, sentimenti e situazioni. E se al pubblico fai vedere le cose con onestà, lo capisce cosa fare e non fare».

Poi ci sono quelli che dicono che soprattutto i giovani possano sentirsi attratti dal fenomeno mafioso: a questi cosa dice?

«Che bisogna vedere sia Boldi che Gomorra. Che non si deve essere esclusivi. Che la realtà è fatta di tante cose. Purtroppo al sud abbiamo questa piaga, e allora raccontiamola. Senza problemi. Chi dice di voler nascondere mi sa un po’ di atteggiamento fascista. E mi fa tornare in mente quando Andreotti disse di un film di De Sica che i panni sporchi si lavano in famiglia… Ma nel caso di Gomorra c’è anche un altro fenomeno curioso».

Quale?

«Il percorso degli attori. Che è esso stesso un messaggio. Guardi, noi veniamo dalla strada, non siamo figli di attori famosi o legati a chissà chi. Io, Marco D’Amore, Salvatore Esposito e tutti gli altri. Io ricevo tutti i giorni lettere, romanzi, fotografie, la gente dice: c’è la possibilità di fare un percorso diverso. Molta gente di Scampia mi scrive e mi racconta quello che accade. Hanno capito che raccontare è uno strumento ed è quella la grande rivoluzione che abbiamo fatto secondo me».

E’ rimasto sorpreso nel leggere che la mafia non esiste poi solo al Sud?

«No. All’estero ho dichiarato che mafia e camorra sono delle sigle ma non sono un brand italiano, li hanno anche loro. Noi siamo un grande popolo, con grandi problemi che vedono tutti. Se vai in Germania o in Francia o in Inghilterra sono più bravi a nasconderli, sono più nazionalisti, ma hanno gli stessi problemi. Saviano raccontava del caso del camorrista inglese. Il male interessa l’essere umano. Il male è un problema universale».

La rivedremo prima o poi in teatro? Magari in Calabria…

«Perchè no? Anzi, le dico che con Lindo ci stiamo lavorando, abbiamo dei progetti, mi piacerebbe tanto».

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