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Proteste a Napoli

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AVEVAMO i calzoncini corti nel ’68. Però ce lo ricordiamo bene quel vento di passioni che dalle strade saliva fin dentro le case mescolandosi col vapore pasionario del latte portato dal pastore mentre bolliva. Si percepiva il profumo di un mondo nel quale cambiava definitivamente qualcosa, che inaugurava la grande stagione delle domande sostanziali: la politica, i diritti, Dio anche. Le nostre mamme avevano capito che la vera rivoluzione era non lasciare mai più indietro nessuno. La coscienza mordeva per i calpestati, i diseredati, per l’operaio della fabbrica del tessile che chiuse, per l’uomo dell’Ape con la verdura, per la maestra che prendeva servizio a un’ora e mezza da casa ogni mattina senza quasi asfalto sulla strada. Sapevano, soprattutto, che la questione morale faceva un tutt’uno con l’occupazione di Stato, di enti locali, banche, ospedali, università, tv e giornali da parte dei partiti. Ma anche che tutti occorreva agire per evitarlo, fino a quando si sarebbe riusciti da soli ad allacciare le scarpe. In quel tempo le camicie e le canotte bianche dei nostri padri odoravano di onestà e nelle case degli operai entravano i Ricordi dal sottosuolo e Moby Dick, e ci si chiedeva di Cristo e del significato del discorso della montagna.

Che ne è stato di quel mondo dal cuore così urgente? Saremo impopolari, forse, ma in piazza si scendeva per cambiare la Storia, non gli orari di apertura di una pizzeria. Oggi chi sta in capo alla rivoluzione d’ottobre gridando al taglio delle teste, lasciando inzuppare il pane alle destre estremiste? I negazionisti del Covid-19 e, in queste ore, i ristoratori (i lavoratori dello spettacolo, ma con altro animo). Occorre comunque essere giusti. Secondo il rapporto annuale della Federazione italiana pubblici esercizi (Fipe), sono oltre 864mila i dipendenti del settore, e quasi 400mila gli autonomi. Significa un bacino enorme, famiglie da mantenere, sacrosante richieste di attenzione.

Tuttavia all’idea che i teorici della ribellione siano chef stellati come Vissani, nuovi Masaniello ma con conti in banca a svariati zero, non ci rassegniamo. E che la crisi del settore del food, non esente da capolarati, sfruttamento ed elusione fiscale, sia da ascrivere unicamente al terremoto Covid è in larghissima parte un falso madornale. La criticità nel settore è di gran lunga precedente, e specie al sud è anche un problema che riguarda il forte turnover tra i nuovi attori sul mercato e la ridottissima vita media dei nuovi locali: il 25 per cento dei ristoranti che vengono aperti chiude entro un anno dall’apertura, il 50 entro tre anni e il 57 getta la spugna dopo soli cinque anni. E poi perché oggi si reagisce contro le decisioni del governo che servono a contenere la curva ormai esponenziale del virus senza invece aver fatto nulla, ma proprio nulla, fino a soli pochi giorni fa per impedirlo, tra aperitivi e movida, feste? Che fotografia è, invece, quella delle piazze italiane contro mafie, malaffare, intrecci con la politica, ingiustizie? Vuota. Perché i cittadini di Cagliari, Cosenza o Reggio Calabria, Palermo, e anche di Milano, Roma, Torino non si ribellano piantonando le strade per non pagare il pizzo, o perché tutti paghino le tasse, o per dire basta alla corruzione o alle mani sporche sulla sanità? Non ci piace che adesso la vera emergenza sociale italiana, per la quale scendere in piazza, sia unicamente la ristorazione, a fronte di una povertà spesso assoluta, minuta, nascosta, ignorata, che lievita nel nostro paese.

Non ci piace nemmeno che molti, anche tra i più illuminati, giustifichino violenze e devastazioni. Si scende in piazza, si manifesta, si fa sentire la propria voce, si sta fuori occupando gli spazi urbani anche in maniera permanente, ma non è tollerabile lo scontro. Non regge alcuna giustificazione. Nemmeno la fame. Questa viene da lontano, non da vicino. La responsabilità non è dei decreti di Palazzo Chigi, ma di quella politica immorale e quella immorale occupazione dell’Italia che ci ha oppresso per decenni. Odette Copat, scrittrice friulana di Pordenone (di recente è uscito uno splendido “Manuale Malincomico di soccorso alla quotidianità”, per Edizione Biblioteca dell’Immagine), scrive una cosa semplice e illuminante: “Guardo mio figlio di dodici anni dormire. Sembra più piccolo. Penso alla dignità con cui, come molti altri ragazzini, sta affrontando questa situazione, con tutta la fatica della sua età, e provo imbarazzo e rabbia per la scompostezza di certi commenti e atteggiamenti e strepitii di noi adulti colpevoli e sbraitanti. Noi cicale approssimative, con i nasi di fuori e le mani mai abbastanza igienizzate. Scusa, ragazzino mio. Gli tiro su la coperta ed è me che voglio coprire”.

Quando vedremo nel nostro paese qualcuno non sbraitare a priori e stare invece davanti a un carrarmato con le mani alzate come a Tienanmen, oppure marciare per i diritti umiliati come a Minsk, in Bielorussia, rischiando la pelle? Mai. Si preferisce la via larga, quella della protesta cieca e senza reali contenuti, anche violenta, invece che quella, strettissima, di fronte a necessarie privazioni, dell’abbandono dell’Iocrazia, come direbbe Jaques Lacan. Lo ricorda, e bene, Massimo Recalcati. In questa seconda quarantena, seppure piccola (almeno per adesso) abbiamo una seconda possibilità: “Vedere che cosa ci può essere al di là del proprio io”, spiega lo psicanalista e saggista, capire come “la privazione stessa della libertà può essere vista come l’affermazione più alta della libertà, come donazione. Il richiamo ai diritti dell’io, alla sua privacy, eccetera, in un tempo emergenziale come questo insiste nel ribadire una concezione solo proprietaria, neoliberale, neolibertina, della libertà. Non si riesce a vedere nella privazione, non tanto un’espiazione sacrificale, ma una donazione senza la quale il virus dilagherebbe e le nostre comunità ne sarebbero sconvolte”.

Allora sì che dovremmo trovare le parole per chiedere scusa ai nostri figli. Senza mai più trovarle.

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