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La medium Renata Soli

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PETILIA POLICASTRO (KR) – «Non sono un dio ma ho poteri che voi non avete». Ha esordito così, dinanzi alla Corte d’Assise di Catanzaro, la medium che era stata chiamata in aiuto dai familiari di Rosario e Salvatore Manfreda, padre e figlio, scomparsi nel nulla a Pasqua 2019. I loro corpi furono trovati nel settembre dello stesso anno a Mesoraca, in un burrone nella località Caravà, ma a rivenirli non fu la maga, ma uno dei parenti dei desaparecidos.

«Sono stata battuta da Saverio Manfreda, forse il dio è lui», ha ammesso deponendo, in qualità di teste della difesa, nel processo a carico di Pasquale e Salvatore Emanuel Buonvicino, padre e figlio, di Petilia Policastro, e Pietro Lavigna, di Mesoraca, imputati per il duplice omicidio maturato, secondo l’accusa, per contrasti per confini di terreni tra allevatori. Renata Soli, in arte Elisa, ha raccontato un po’ la sua storia. Siciliana di origini, vive a Parma ma si era trasferita a Petilia dopo essere stata contattata per questo caso, essendo divenuta amica dei Manfreda. «Mi sentivo come a casa mia», ha detto, anche se poi ha raccontato di aver litigato coi familiari delle vittime perché non le hanno regalato nulla. Lei, infatti, sostiene che per i suoi servizi non pretende compensi ma soltanto doni. A Petilia però non ha riscosso manco quelli; ne è nata una bega finita in Tribunale. Ha anche raccontato di aver dovuto cambiare abitazione perché era stata molestata dal primo proprietario. E, a proposito dei suoi poteri, ha sostenuto di aver fatto ritrovare una persona scomparsa a Bisignano, nel 2019, anche se a Petilia sarebbe stata «battuta sul tempo».

Eppure lei aveva «visto», s’intende «in sogno», che gli scomparsi si trovavano «vicino a un burrone». L’interrogatorio è andato avanti per un bel po’ perché le hanno fatto domande il sostituto procuratore di Crotone Alessandro Rho, gli avvocati difensori Francesca Buonopane, Saverio Loiero, Sergio Rotundo, Gregorio Viscomi e Stefano Vona e gli avvocati di parte civile Walter Parise, Pietro Pitari, Giovambattista Scordamaglia. La maga, però, non ha fatto ritrovare né i corpi né tantomeno l’arma utilizzata dai killer, probabilmente un fucile dai colpi del quale Salvatore Manfreda, in particolare, fu raggiunto al capo, come rivelerebbe la materia cerebrale rinvenuta nei pressi dell’azienda, poco distante dal luogo in cui furono ritrovati i corpi. Nell’arco di 70 metri tra l’azienda dei Manfreda, che erano andati a dar da mangiare agli animali, perfino la domenica di Pasqua, e il materiale biologico spuntò, infatti, un bossolo calibro 12 durante i rilievi.

Rosario e Salvatore Manfreda erano scomparsi a Pasqua 2018 e l’ipotesi investigativa che era stata fatta fin da subito dai carabinieri del Nucleo investigativo del Comando provinciale di Crotone era che i due fossero stati uccisi ed i loro cadaveri fatti sparire. Gli imputati furono inchiodati dall’analisi incrociata dei filmati registrati dagli impianti di videosorveglianza della zona e dei tabulati dei telefonini delle vittime. Le immagini riprendono un corteo di quattro auto, quelle dei tre sotto accusa e la Ford “Maverick” degli scomparsi, rinvenuta bruciata nella località Caravà.

Secondo l’accusa, gli imputati, compiendo manovre anomale a mo’ di scorta, avrebbero abbandonato i loro poderi per raggiungere luoghi che nulla hanno a che fare con la loro attività lavorativa, ovvero l’area in cui fu trovata carbonizzata l’auto delle vittime, su cui peraltro fu avvistato all’andata Pasquale Buonvicino che, al ritorno, era sulla Panda del figlio.

Nel materiale probatorio è confluita anche la minaccia «Siete tre bianchi che camminano» che Pasquale Buonvicino avrebbe rivolto a Rosario Manfreda per uno sconfinamento di vacche. Una minaccia risalente al 2017 che i militari coordinati dal pm Rho approfondirono per il suo valore “profetico”, e che Buonvicino avrebbe pronunciato nei confronti anche di due figli di Manfreda. Il riferimento sarebbe alla famigerata “lupara bianca”, il modus operandi consolidato a Petilia, il paese degli scomparsi, con cui la ‘ndrangheta si sbarazza delle proprie vittime per evitare sospetti da parte delle forze dell’ordine; fu, del resto, questa la sorte della testimone di giustizia Lea Garofalo, poi assurta ad icona antimafia. Non viene comunque contestata alcuna aggravante mafiosa.

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