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La Corte di Cassazione

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Le motivazioni della Cassazione sulla sentenza del Processo Aemilia tracciano il profilo della supercosca egemone in Emilia ma con solide radici a Cutro: «Economia colonizzata grazie a pezzi di società conniventi»

CUTRO (KR) – La ‘ndrangheta delocalizzata, autonoma e imprenditrice si avvaleva della  «utilitaristica connivenza» di parte della società civile emiliana. Per questo era stato in grado di attuare la «colonizzazione delle attività imprenditoriali» in una delle aree più produttive del Paese. La Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione ha depositato le motivazioni della sentenza con cui, nel maggio scorso, ha inflitto circa sette secoli di pena e ha sancito definitivamente l’operatività della filiale emiliana della super cosca di Cutro.

PROCESSO AEMILIA, CON LE MOTIVAZIONI DELLA CASSAZIONE CALA IL SIPARIO

Si chiude il sipario sul maxi processo Aemilia, il più grande per numero di imputati mai celebrato contro le mafie al Nord Italia, ma allo stesso tempo si conosce in via definitiva perché la super associazione mafiosa era riuscita a penetrare nel tessuto economico della grassa e rossa Emilia. Nel respingere i ricorsi di 73 (su 87) imputati, in accoglimento delle richieste della Procura generale, gli ermellini hanno tracciato gli elementi caratterizzanti della «‘ndrangheta autonoma». Una super cosca che, pur collegata alla “casa madre”, la piovra capeggiata dal boss di Cutro Nicolino Grande Aracri, era dotata appunto di «autonomia organizzativa e decisionale». 

’NDRANGHETA AUTONOMA

Un «autonomo sodalizio mafioso», dunque, e «non una mera articolazione territoriale, per quanto strutturata e complessa, della cosca di Cutro». Gli ermellini ricordano innanzitutto che di un’«associazione emiliana autonoma dalla “casa madre” di Cutro sebbene alla stessa collegata» si parlava nei procedimenti Grande Drago ed Edilpiovra, che avevano già accertato l’operatività di un’organizzazione criminale di matrice ‘ndranghetista attiva nelle province di Piacenza, Parma, Reggio Emilia e Cremona capeggiate da Francesco Lamanna, Francesco Grande Aracri, Antonio Grande Aracri e Nicolino Sarcone. Non meri precedenti storici ma prova dei fatti, secondo i giudici. L’insediamento di cellule criminali di origine cutrese a Reggio Emilia e nella Bassa Lombarda risale, del resto, risale agli anni Novanta e, per la Suprema Corte, costituisce «imprescindibile presupposto» delle dinamiche criminali.

IL PUNTO DI SVOLTA

Il «punto di svolta» nella linea evolutiva di questa massiccia penetrazione ‘ndranghetistica in terra emiliana è dato dall’«affermazione del predominio della cosca guidata da Nicolino Grande Aracri a seguito di una sanguinosa guerra di mafia che ha interessato direttamente il Nord peninsulare e l’Emilia». I giudici ricordano una lunga scia di omicidi compiuti in Emilia (dove tra il ’92 e il ’99 furono uccisi Nicola Vasapollo, Giuseppe Ruggiero, Domenico Lucano, Giuseppe Abramo, Oscar Truzzi) culminata con il delitto eccellente commesso a Cutro nel maggio 2004, vittima il vecchio boss Antonio Dragone. Un delitto spartiacque perché sancisce «l’egemonia criminale dei Grande Aracri nel territorio calabrese e la soccombenza dei clan antagonisti tra cui gli Arena, dando luogo ad un assetto di potere destinato a riverberare i propri effetti anche sulle strutture associative delocalizzate».

La «radicale novazione» si ha a metà degli anni 2000 all’insegna di un «pragmatico sincretismo che comportava la cooptazione di molti esponenti delle cosche perdenti e l’adozione di un modulo organizzativo orizzontale con la ripartizione delle aree di operatività territoriale facenti capo alle figure di Nicolino Sarcone, Francesco Lamanna, Alfonso Diletto». Una scelta «dettata» dal boss Grande Aracri che, lungi dal comportare «frammentazione» della compagine criminale ne determina «un più penetrante e capillare controllo del territorio, attuato mediante la costante interlocuzione dei vertici, la circolarità delle informazioni, il raccordo e la sinergia operativa nell’attuazione del comune progetto criminale».

I 124 DANNEGGIAMENTI

Circa la capacità intimidatoria derivante dal collegamento con la casa madre i giudici rammentano i ben 124 episodi di danneggiamento e incendio avvenuti nelle province di Reggio Emilia, Parma, Piacenza e Modena, «tutti caratterizzati dalla omertà delle vittime che non hanno denunciato i fatti e hanno negato di avere subito pressioni o richieste estorsive». Vengono rievocati anche l’incendio doloso di ben nove tir avvenuto a Reggiolo ai danni dell’impresa di trasporti di Domenico Bonifazio e la «palese reticenza» del titolare, ma anche tante altre condotte aggressive. Ma si ripercorre anche la «tendenza evolutiva» dell’associazione mafiosa emiliana che «non si è limitata a sfruttare il capitale intimidatorio accumulato negli anni Novanta e la fama criminale del sodalizio di riferimento facendo leva sulla consistente colonia di emigrati trasferitisi dalla Calabria in Emilia», ma ha «con costanza attualizzato il metodo, declinandolo secondo gli opportuni adattamenti suggeriti dal contesto operativo e dall’area di insediamento».

LA STRATEGIA MEDIATICA

Tra quegli “adattamenti” al nuovo contesto, i giudici menzionano il ricorso, in un momento di particolare fibrillazione vissuto dalle imprese di riferimento del clan per la massiccia attività di interdittive antimafia emesse dalla Prefettura di Reggio Emilia, a quella «inedita campagna sui mezzi d’informazione locali» caratterizzata anche dalla ricerca di «contatti anche con esponenti della politica e della pubblica amministrazione al fine di orientarne le scelte». I giudici richiamano anche il concetto di struttura unitaria della ‘ndrangheta acclarato con la sentenza Crimine Infinito, grazie al quale trova spiegazione «il vincolo di fedeltà verso il capo e l’onere di informazione nei suoi confronti circa le decisioni di maggior rilievo», come pure il riconoscimento del “fiore”, ovvero parte del profitto a titolo di regalia. L’interesse del capo per la compagine emiliana si limitava al reinvestimento dei proventi illeciti nel «tentacolare sistema delle false fatturazioni» oppure in «lucrative attività commerciali».

ALA IMPRENDITORIALE E ALA MILITARE

I giudici parlano di un’«efficace sintesi tra l’area militare e quella imprenditoriale». Da una parte uomini di strada e “azionisti” impegnati in estorsioni, usura e traffico di stupefacenti oltre che nei tradizionali reati di intimidazione, incendi e danneggiamenti. Dall’altra, «imprenditori mafiosi che pur organici al sodalizio risultano apparentemente lontani da contesti illeciti», e che al fine di «accreditare la propria affidabilità» creano presupposti per «una più incisiva infiltrazione della realtà economica territoriale».

I pentiti Antonio Valerio, Giuseppe Giglio, Salvatore Muto hanno illustrato una strategia di coinvolgimento degli imprenditori vittime che hanno preferito all’estromissione dalla scena economica la «prestazione di un interessato consenso alla condivisione degli obiettivi e dei metodi delle imprese dominanti mettendo loro a disposizione mezzi e strutture societarie in cambio di protezione e condivisione di canali di illecito profitto». Tra quanti vengono cooptati nell’area di influenza del sodalizio anche il giornalista Marco Gibertini che ha svolto funzioni di «raccordo tra esponenti dell’imprenditoria reggiana interessati al recupero dei crediti con mezzi non convenzionali e membri del sodalizio».

E l’imprenditore Augusto Bianchini coinvolto negli appalti post sisma nella provincia di Modena su cui ha lucrato il clan. Non a caso i giudici parlano di «utilitaristica connivenza mostrata da settori dell’imprenditoria autoctona» con riferimento all’attività di falsa fatturazione. Un sistema apparentemente legale che prevedeva la creazione di «una rete di società il più delle volte inattive e rappresentate da prestanomi destinato ad occultare i reali gestori». Lo strumento per creare «un’apparenza di legalità» anche al «massiccio ricorso sui cantieri al lavoro nero con l’intermediazione dei caporali». Insomma, una «solo apparente distanza tra ‘ndrangheta azionista e ‘ndrangheta imprenditoriale» già oggetto delle rivelazioni dei pentiti Angelo Cortese e Francesco Oliverio, che mutuava la distinzione tra “società maggiore” e “società minore” i cui rapporti sono «continui ed osmotici».

 I “QUATTRO AMICI AL BAR”

«Nella realtà emiliana che si era affrancata da molte incrostazioni rituali della ‘ndrangheta tradizionale… gli esponenti più autorevoli, noti e stimati del gruppo, con trascorsi pubblicamente ostensibili affiancavano discretamente nelle attività Nicolino Sarcone per conto del quale avrebbero dovuto anche svolgere un ruolo di raccordo con ambienti politici e istituzionali», è detto, infatti, in sentenza. Gli uomini di fiducia di Sarcone, quelli che il pentito Valerio definiva i “quattro amici al bar”, ovvero Giuseppe Iaquinta (il padre del calciatore Vincenzo, campione del mondo di Germania 2006), Pasquale Brescia, Alfonso Paolini e Antonio Muto erano «sviluppatori di idee in stretto e confidenziale rapporto con esponenti di forze dell’ordine e ben introdotti nella società civile emiliana». Insomma, un «variegato dinamismo» che si traduce nella «colonizzazione delle attività imprenditoriali» e la cui «progettualità delittuosa multiforme» portava anche alla creazione di «canali di condizionamento della rappresentanza politica, delle istituzioni, dell’informazione».

IL PRECEDENTE

Il filone del rito abbreviato, che ha visto a processo quasi tutti i capi dell’organizzazione, è invece già concluso con una quarantina di condanne passate in giudicato e tra loro anche il super boss Grande Aracri.

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