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Un veduta di Petilia Policastro

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PETILIA POLICASTRO – L’auto Ford “Maverick” su cui padre e figlio, gli allevatori Rosario e Salvatore Manfreda, rispettivamente di 67 e 34 anni, viaggiavano la domenica di Pasqua, prima di scomparire nel nulla apparentemente senza un perché, è stata rinvenuta dai carabinieri della Compagnia di Petilia Policastro l’altra sera nella campagna circostante San Mauro Marchesato: era completamente distrutta dalle fiamme in seguito a un incendio. La circostanza avvalora sempre di più l’ipotesi che sta acquisendo consistenza in ambienti investigativi: lupara bianca.

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È il consolidato, da queste parti, modus operandi della ‘ndrangheta quando si vuole eliminare qualcuno senza lasciare tracce e senza fare troppo rumore. Tracce e rumori attirano le forze dell’ordine, mentre l’”usanza” petilina è di tipo “chirurgico” al fine di eludere i sospetti. Qualcuno, probabilmente con un tranello, ha attirato le vittime predestinate in un luogo sperduto, forse le ha assassinate e l’auto è stata incendiata. Lo ha fatto dopo che padre e figlio avevano dato da mangiare agli animali, come facevano tutti i giorni, anche di domenica, anche di Pasqua, nella loro azienda nella località Bardaro.

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I congiunti, non vedendoli arrivare per il pranzo pasquale, e essendo risultati vani i tentativi di rintracciarli al cellulare, sono andati in azienda e hanno verificato che i mangimi erano stati distribuiti agli animali. Cosa è successo subito dopo? Su questo buco nero si concentrano le indagini, che non trascurano le fedine penali dei due desaparecidos, non intonse: con la giustizia hanno avuto a che fare ma mai per reati di criminalità orgtanizzata. Un modus operandi rodatissimo, quello della ‘ndrangheta, dicevamo, se si consideri che soltanto nel novembre scorso un altro allevatore, Massimo Vona, era scomparso nel nulla. Il copione si ripete perché a distanza di qualche giorno anche in quel caso fu rinvenuta l’auto della vittima, naturalmente bruciata: una Fiat “Punto”. Vona era il cugino di Valentino Vona, il 25enne ucciso nell’aprile 2012 nell’agguato in cui scampò, invece, il fratello della vittima, Giuseppe, che era il vero obiettivo.

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Per quel delitto, compiuto con l’utilizzo di un badile, otto condanne sono divenute definitive nel dicembre 2017. Le parentele sono importanti, quando si parla di dinamiche mafiose. Rosario Manfreda era cugino di secondo grado di Vincenzo Manfreda, assassinato un mese prima di Vona, delitto riconducibile a pezzi grossi della cosca Comberiati, dominante nella zona, i cui esponenti di vertice avrebbero avuto il ruolo di organizzatori con l’intento di vendicare la morte del parente sulla base del raggiro consistente nel far credere, negli ambienti criminali, che gli stessi Vona fossero responsabili. Manfreda era il reggente del clan e stava acquisendo sempre più potere mafioso essendo gli elementi di spicco del clan detenuti.

C’entra qualcosa, con questo grumo sanguinoso di eventi, la sparizione di padre e figlio? Difficile dirlo, tanto più che secondo alcune testimonianze, non confermate dalle fonti ufficiali, all’interno dell’azienda pare ci sia stata una lite, una decina di giorni orsono. Del resto, il capo della cosca, Vincenzo Comberiati, è in carcere da lungo tempo e tra le pene da scontare ne ha anche una all’ergastolo mentre colui che viene indicato come il suo successore, ovvero Rosario Curcio, almeno nelle carte della Dda di Catanzaro, è finito in carcere nel dicembre scorso nell’ambito dell’inchiesta che ha portato all’operazione Tisifone. L’unica cosa certa è che Petilia è rimpiombata nell’incubo, dopo un periodo di relativo quieto vivere: tre persone sono svanite nel nulla negli ultimi sei mesi e nessuno sa spiegare perché. Mentre il sonno viene scosso dall’inquietante rombo degli elicotteri dell’VIII Elinucleo dei carabinieri di Vibo Valentia che tornano ad alzarsi sull’Alto Marchesato, alla ricerca di indizi.

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