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Parte del materiale sequestrato dalle forze dell'ordine

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Smantellata una rete criminale che provvedeva a fatture false per operazioni inesistenti tra Crotone e l’Emilia Romagna: 15 misure cautelari


CUTRO – «Non è una ‘ndrangheta vera e propria ma c’è una parte di ‘ndrangheta… Siamo leggermente sotto uno che è Aracri quindi abbiamo la massima protezione». Facevano riferimento al boss della provincia di Crotone Nicolino Grande Aracri, nelle conversazioni intercettate, i promotori di una presunta associazione a delinquere. Una rete il cui “core business” criminale era legato principalmente alla commissione di reati tributari, con l’emissione di fatture per operazioni inesistenti e l’aiuto di professionisti residenti in Emilia Romagna. E originari del Crotonese erano i presunti capi dell’organizzazione criminale, i fratelli Gionata e Samuel Lequoque, rispettivamente di 46 e 39 anni, finiti in carcere.

Sono in tutto 15 le misure cautelari eseguite, di cui 5 in carcere, 7 ai domiciliari, 1 obbligo di dimora e 3 misure interdittive. Oltre ai fratelli Lequoque, nati a Crotone, gli altri calabresi coinvolti perchè facenti parte di questa rete articolata sono il vibonese Giovambattista Moschella, di 65 anni (detenuto per altro, è destinatario di una misura domiciliare) e il commercialista Gianfranco Grande, 34enne originario di Cutro ma residente in Emilia Romagna, a Parma, destinatario di interdizione. Ai domiciliari il 51enne Francesco Emilio Anastasio, altro cutrese residente nel Reggiano.

Nell’articolato sistema di frode fiscale erano coinvolti numerosi imprenditori quali utilizzatori delle false fatturazioni. L’organizzazione avrebbe gestito un imponente giro d’affari nel settore delle prestazioni di servizi. Interessi dalla cantieristica alla manutenzione di macchinari industriali e pulizie, oltre che nel settore del noleggio di autovetture e di commercio all’ingrosso. Sono 81 le imprese di tutta Italia coinvolte nell’operazione denominata “Minefield”. Coordinata dalla Procura di Reggio Emilia diretta da Gaetano Calogero Paci, l’operazione vede in totale 108 indagati, di cui 26 accusati di associazione a delinquere. In azione, per la notifica dei provvedimenti, 350 militari tra finanzieri del Comando provinciale di Reggio Emilia e dello Scico e carabinieri del Comando reggiano.

Per uno degli indagati arresto in flagranza per detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti. Ciò in quanto durante una perquisizione gli inquirenti hanno rinvenuto 18 chili di hashish e 4 di marijuana. Un altro è stato trovato in possesso di 400mila euro in contanti annusati da cani addestrati. Durante le operazioni sono stati sequestrati anche preziosi ed orologi di valore. Le indagini avrebbero quindi svelato infiltrazione criminali nel tessuto economico emiliano con riflessi su scala nazionale. Sono, infatti, coinvolti calabresi originari di Cutro, professionisti calabresi e campani, ma anche indagati originari di Reggio Emilia e della provincia di Foggia.

Il meccanismo fraudolento prevedeva la creazione di società cartiere e l’acquisizione di società realmente esistenti. Tutte poi destinate alla emissione di fatture false, intestate principalmente a prestanome, i quali agivano sotto le direttive dei capi dell’organizzazione. Individuate anche le ditte compiacenti, i cui titolari effettuavano bonifici pari all’importo delle fatture false o per operazioni inesistenti ricevute sui conti correnti riferibili alle società riconducibili al sodalizio; denaro che successivamente veniva – sia attraverso numerosi prelievi giornalieri, sia attraverso bonifici o emissione di assegni – riconsegnato agli stessi fruitori delle fatture emesse per operazioni inesistenti, al netto della percentuale stabilita per il “servizio”. Contestati anche reati di estorsione, riciclaggio ed auto-riciclaggio dei proventi illecitamente ottenuti, bancarotta fraudolenta, indebita percezione di erogazioni pubbliche ed appropriazione indebita.

Non solo frodi al fisco, dunque, ma anche al welfare statale, con la percezione illecita di indennità di disoccupazione Naspi ( per circa 60mila euro) e contributi pubblici nel periodo Covid (per circa 72mila euro). Luce anche su un sistema di riciclaggio internazionale che prevedeva che i proventi illecitamente ottenuti confluissero in Bulgaria. Da qui, inviavano il denaro su ulteriori conti esteri o monetizzato, per essere poi reintrodotto fisicamente in Italia. In altri casi, l’organizzazione criminale, per ripulire il denaro illecitamente ottenuto e reintrodurlo nei circuiti dell’economia legale nazionale, lo reinvestiva nell’acquisto di diamanti o preziosi o in autovetture di lusso, acquistate in Austria e poi noleggiate nel Reggiano, attraverso società riconducibili all’organizzazione.

In totale, si tratta di oltre quattro milioni di euro di fatture false: l’importo dell’imposta evasa da 69 società, risultate essere le maggiori utilizzatrici delle stesse false fatturazioni, ammonta a oltre 6 milioni. I fratelli Lequoque, nati a Crotone ma da tempo emigrati in Emilia Romagna, capeggiavano, secondo l’accusa, la rete criminale dedito alla “vendita” dei “servizi” illeciti di falsa fatturazione a svariati imprenditori con un volume di fatturato inesistente che si aggirava in oltre 20 milioni di euro.

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