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IL CONTATORE DELLE imprese in Calabria gira al contrario e il 2013 sarà ricordato come l’anno con il più alto tasso di mortalità nel tessuto produttivo della regione. Nell’ultimo anno, infatti, hanno cessato di esistere 11.102 aziende: più di 30 al giorno, quasi due ogni ora. Si spengono le luci di un opificio e vengono giù progetti di vita, ambizioni imprenditoriali, sogni di emancipazione. Uno spaccato drammatico che testimonia l’estrema fragilità del mondo imprenditoriale calabrese e un costante impoverimento del segmento produttivo, con inesorabili effetti a cascata sul mercato del lavoro e sulla tenuta delle famiglie. I numeri calabresi, fra l’altro, fanno il paio con quelli raccolti a livello nazionale da Unioncamere e in base ai quali in Italia un imprenditore ogni mezzora molla la spugna. La provincia che sta peggio è Cosenza (il territorio più grande) con 4.294 imprese venute meno, seguita da Reggio Calabria (2.204), Catanzaro (2.089), Crotone (1.507) e Vibo Valentia (1.008). Impossibile calcolare il numero dei dipendenti che hanno perso il mondo del lavoro nel 2013, dal momento che in ballo ci sono aziende piccole – anche solo con uno due dipendenti – e stabilimenti industriali più strutturati. Ciò che, invece, è certo è che alcuni settori più esposti di altri. Non regge, ad esempio, il mattone. In Calabria non conviene più investire in imprese edili, che sono anzi quelle più colpite dalla crisi a causa anche dei ritardi nei pagamenti da parte della pubblica amministrazione: circa il 60% delle aziende chiuse si occupavano di costruzioni e dintorni. In mezzo al buio pesto che avvolge l’economia calabrese, ci sono dei punti di luce. La buona notizia è rappresentata dall’agroalimentare, settore che regge e anzi cresce, potenziale volano di sviluppo dal caffé fino alle provole. Qui non solo non si licenzia ma si aprono nuove e consistenti opportunità di lavoro.

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