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CATANZARO – Secondo lo studio elaborato dalla Cgia di Mestre in Italia ci sono 3,3 milioni di lavoratori “invisibili” che ogni giorno si recano nei campi, nei cantieri, nei capannoni o nelle case degli italiani per prestare la propria attività lavorativa senza però essere riconosciuti come esistenti dallo Stato e dagli enti previndenziali: 3,3 milioni di lavoratori in nero. Ed è la Calabria la regione più a “rischio” che presenta, sempre secondo le stime della Cgia, 146 mila lavoratori in nero, ma con un’incidenza percentuale del valore aggiunto da lavoro irregolare sul Pil regionale pari al 9,9%. Un risultato che è quasi doppio rispetto al dato medio nazionale (5,2%) anche se in termini assoluti il maggior danno al Pil nazionale proviene dalle regioni del nord dove benchè l’incidenza sul pil regionale sia minore in realtà il maggior pil complessivo comporta valori assoluti ben più elevati, ad esempio nel Veneto si registra la più bassa incidenza sul Pil regionale pari al 3.8% ma con un danno al fisco quasi doppio rispetto a quello prodotto dalla Calabria.

Questa situazione, secondo l’elaborazione della CGIA, si traduce in quasi 1,6 miliardi di mancate entrate per lo Stato dalla Calabria. Segue la Campania che con 382.900 unità di lavoro irregolari “produce” un Pil in “nero” che pesa su quello ufficiale per l’8,8%. Le tasse che mediamente vengono a mancare in Campania ammontano a 4,4 miliardi all’anno. Al terzo posto di questa particolare graduatoria troviamo la Sicilia: con 312.600 irregolari e un peso dell’economia sommersa su quella complessiva pari all’8,1%, le imposte e i contributi non versati sfiorano i 3,5 miliardi all’anno. Il territorio meno interessato dalla presenza dell’economia sommersa è il Veneto: i 199.400 lavoratori in nero “causano” 5,2 miliardi di valore aggiunto sommerso (pari al 3,8% del Pil regionale) che sottraggono al fisco quasi 2,9 miliardi. 

Pur essendo sconosciuti all’Inps, all’Inail e al fisco, gli effetti economici che producono questi soggetti sono importanti e pesantissimi. Secondo le ultime stime elaborate dall’Ufficio studi della CGIA, questo esercito di irregolari genera 77,3 miliardi di fatturato in nero all’anno, sottraendo al fisco un gettito di 42,6 miliardi. Un importo pari a oltre il 40% dell’evasione di imposta annua stimata dai tecnici del ministero dell’Economia e delle Finanze. A rimetterci non sono solo le casse dell’Erario, ma anche le tantissime attività produttive e dei servizi, le imprese artigianali e quelle commerciali che, spesso, subiscono la concorrenza sleale di questi soggetti.

Questi lavoratori in nero, infatti, non essendo sottoposti ai contributi previdenziali, a quelli assicurativi e a quelli fiscali consentono alle imprese dove prestano servizio di beneficiare di un costo del lavoro molto inferiore e, conseguentemente, di praticare un prezzo finale del prodotto/servizio molto contenuto. Prestazioni, ovviamente, che chi rispetta le disposizioni previste dalla legge non è in grado di offrire. Tre milioni di persone, costituite da lavoratori dipendenti che fanno il secondo/terzo lavoro, da cassaintegrati o pensionati che arrotondano le magre entrate o da disoccupati che in attesa di rientrare nel mercato del lavoro sopravvivono “grazie” ai proventi riconducibile a un’attività irregolare.

Da questo punto di vista la Cgia di Mestre suggerisce, per contrastare questo fenomeno, la reintroduzione dei voucher che potrebbe essere una prima risposta. Oltre ai voucher, ovviamente «c’è la necessità, in particolar modo, di abbassare le tasse e i contributi previdenziali, di ridurre il carico amministrativo e di incentivare le misure dissuasive e di stimolo all’emersione, sostenendo, soprattutto, l’attività di controllo eseguita dagli organi preposti. Senza contare, infine, che è necessario mettere in campo una grande operazione educativa in tutti gli ambiti sociali per promuovere la cultura della legalità».

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