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Il maestro Franco Battiato

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Con Franco Battiato se n’è andato un grande musicista, un grande artista, un grande uomo. Era una persona speciale. Come speciali erano tutte le cose della sua vita. Da qualche anno la malattia lo aveva costretto a vivere rinchiuso nel suo “segreto laboratorio” di Milo, alle pendici dell’Etna.

A metà strada tra il vulcano e il mare, inebriato dal profumo dei gelsomini, passava le sue giornate a meditare, a scrivere musica, a leggere, a scrutare le metamorfosi del mare e del cielo stellato. I suoi eloquenti silenzi erano ormai diventati leggendari tra coloro che hanno avuto il privilegio di conoscerlo e di intrecciare con lui rapporti di amicizia.

Franco era capace di guardarti fisso, per lungo tempo, senza proferire parola. Eppure riusciva a comunicare con gli occhi, con le smorfie del viso, con i suoi enigmatici sorrisi. Ogni incontro era una straordinaria occasione per affacciarsi alle molteplici finestre che era in grado di offrire allo sguardo del suo interlocutore: quella musicale (classica, pop, popolare, etnica, lirica), quella artistica (la pittura e il cinema), quella mistica (dal neoplatonismo al buddismo, dal sufismo a Teresa d’Avila e a San Juan de la Cruz), quella letteraria (i grandi classici antichi e la letteratura europea del Rinascimento), quella politica (la sua intransigenza contro i governanti corrotti e il suo concerto umanitario in Iraq nel 1992 dopo i disastri provocati dalla Guerra  del Golfo) e soprattutto quella misteriosa, da cui scrutare gli affascinanti abissi della più intima umanità.

In molte canzoni di Franco, infatti, è l’umano (inteso come fraternità universale e come afflato con la natura) ad occupare una posizione centrale: se nella «Cura» si intravede un invito all’ “accudire” gli altri («Ti proteggerò dalla paure delle ipocondrie/ Dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via») in «Povera Patria» c’è il disprezzo per una politica ridotta a puro interesse personale («Tra i governanti quanti perfetti e inutili buffoni/ Questo paese è devastato dal dolore»).

Avevo conosciuto Battiato a Cosenza nel 2011 quando stava preparando l’opera lirica dedicata al filosofo calabrese Bernardino Telesio (1509-1588), considerato da Francis Bacon come «il primo dei moderni». Da allora non ci siamo perduti più di vista. E ogni anno d’estate ci incontravamo a Milano, ospiti di Elisabetta Sgarbi alla «Milanesiana», una fortunata rassegna di arte, letteratura, cinema e musica.

Sarebbe impossibile raccontare in poche righe una lunga carriera di artista, durata più di cinquant’anni. Battiato era un cantautore molto colto (celebre la sua collaborazione con il filosofo siciliano Manlio Sgalambro) che a partire dagli anni Ottanta aveva conosciuto un successo straordinario, non solo in Italia. Vegetariano per convinzione, Battiato era attratto dall’inestricabile intreccio tra arte e natura. Non a caso la sua opera lirica dedicata al filosofo Telesio è una rappresentazione musicale dove i contrari si incontrano e si scontrano. Non solo, naturalmente, il caldo e il freddo. Ma anche il passato e il presente, la materia e l’etereo, l’umano e il divino.

Battiato ci ha invitato a vedere ciò che il fluire delle cose non ci permette di vedere. Il palcoscenico della vita e il palcoscenico dell’arte sembrano essere entrambi teatro di scontri, di contraddizioni, di un perenne andare e venire tra realtà e finzione, esistenza e sogno.

Per Battiato, insomma, la vita e la morte non sono altro che trasformazioni. Se qui una cosa si dissolve, là ne nasce un’altra. Adesso che non c’è più, coloro che lo hanno amato possono intravederlo con le «ali dispiegate» compiere, come recitano le sue canzoni, «voli imprevedibili e ascese velocissime» nell’universo infinito alla ricerca di «un centro di gravità permanente».

Questo articolo è apparso ieri sul quotidiano «El País», a cui il professore dell’Università della Calabria collabora da qualche anno.

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