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Domenico Cannata

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POLISTENA (REGGIO CALABRIA) – Sono passati cinquant’anni da quella notte del 16 aprile del 1972, in cui perse la vita l’elettricista Domenico Cannata di Polistena. Un attentato mafioso organizzato nei minimi dettagli, per punire una famiglia onesta che non si era mai voluta piegare alle richieste della mafia che uccide, che impone le sue regole. Dal suocero di Domenico che era un proprietario terriero e possedeva anche dei frantoi, la ‘ndrangheta pretendeva subito un pagamento di duecentocinquanta milioni di lire e in seguito una cifra mensile da concordare in base al volume di affari della famiglia. Alla richiesta di danaro seguirono molte lettere di minacce che furono sempre portate all’attenzione delle forze dell’ordine.

E proprio questo atteggiamento di resistenza è costato la vita a Domenico, un piccolo imprenditore padre di quattro figli, che mai fino ad allora era entrato in contatto con la mafia. Per ucciderlo in maniera plateale e lanciare un messaggio preciso a chi avrebbe potuto trarre esempio dal comportamento della famiglia Cannata, fu usato il tritolo, posizionato sotto il davanzale di una finestra, e fatto esplodere quando Domenico – attratto da un’altra esplosione nella piazza sottostante – si affacciò per vedere cosa era accaduto.

Per la sua morte non ci sono mai stati indagati ed è stato riconosciuto vittima innocente di ‘ndrangheta solo nel 2005. Un anno dopo la figlia Teresa ha costituito insieme ad altri familiari di vittime di mafia, l’associazione “Piana Libera”, con l’intento di aiutare e assistere le persone che hanno subito la violenza mafiosa.

«In questo triste giorno – scrivono Teresa, Francesco, Espedito e Marino, i figli di Domenico Cannata, – noi ribadiamo la ricerca di giustizia e il giusto riconoscimento per un polistenese che ha avuto il coraggio di non sottostare al potere malavitoso. Per quel no detto ai mafiosi noi siamo stati costretti a convivere sin da piccoli, con un vuoto che ancora oggi facciamo fatica ad accettare».

Sì, perché quella morte improvvisa e violenta li ha privati di una guida forte e sicura oltre che investirli di troppe responsabilità.

«Spesso – continuano – ci siamo chiesti quanto ci sentiamo liberi e quanto, invece, ci portiamo addosso scomode eredità da non tradire. La perdita di nostro padre ci ha sempre costretti, costantemente, a ridefinire noi stessi, perché l’elaborazione del lutto è un percorso emotivo in cui si succedono lo stordimento, la rabbia, la ricerca disperata e struggente di chi abbiamo perso, la disperazione e infine la scoperta della possibilità di vivere e riprogettare il quotidiano. Davanti alla morte violenta non c’è altro modo di superare il dolore, se non attraversarlo e iniziare la relazione con la persona perduta in una dimensione più spirituale e intimista». Una nuova dimensione dove il rimpianto per ciò che è stato perduto non cesserà mai di esistere.

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