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Raffaella Battaglia

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REGGIO CALABRIA – Da Reggio Calabria a Tokyo. Dal minuscolo campetto dell’oratorio “Genova Firenze”, nel cuore della Villa San Giovanni, negli anni Novanta, sino all’immenso Makurari Messe, location nipponica delle competizioni di pallavolo paralimpica dell’agosto 2021: Raffaela Battaglia di strada ne ha fatta davvero tanta.

Dentro la valigia – oltre alla divisa della prima nazionale italiana di sitting volley – mette gli ingombranti strascichi di una pandemia; l’affetto di una famiglia che ha sempre creduto in lei; la tenacia con la quale ha dimostrato che l’unica barriera è il pregiudizio, mai la disabilità; che lo sport è e deve essere sinonimo di inclusione. L’atleta villese, nata 31 anni fa con un’agenesia alla mano sinistra, lo ha insegnato e preteso.

Le Paralimpiadi, slittate di 13 mesi a causa della pandemia, iniziano il 24 agosto. Quali emozioni ti hanno accompagnato in quest’attesa così lunga e improvvisa?

«Parecchie: dalla violenta adrenalina al forte orgoglio di rappresentare il tricolore. C’è stato anche il timore, grande e costante, che il sogno olimpico potesse svanire per via del covid. Sarebbe stato devastante».

Il covid continua a farti paura?

«Purtroppo la battaglia contro il virus non è finita e, personalmente, rappresenta una tra le mie paure più grandi. Bisogna imparare a conviverci, vivendo tutte le esperienze (Olimpiadi incluse) senza timore ma con buon senso: vaccinazioni e rigido rispetto dei protocolli».

Come hai conciliato la necessità di prepararti per Tokyo con le restrizioni della pandemia?

«Durante il lockdown mi sono sempre allenata da casa, in videochiamata con la squadra, seguita dal preparatore atletico. L’attività da remoto, è ovvio, non era minimamente paragonabile all’allenamento in palestra, ma ci ha comunque permesso di mantenere un ottimo livello atletico. Negli ultimi mesi, grazie ai ritiri “sotto bolla” organizzati dalla federazione, ci siamo preparate davvero bene».

Tu e le tue compagne soffrirete l’assenza del pubblico?

«Temo di sì: indubbiamente il pubblico aiuta a caricarsi. Avere familiari e tifosi italiani in tribuna sarebbe stato emozionante e stimolante».

Cosa significa far parte di una squadra che rappresenta, agli occhi del mondo, l’Italia?

«Il sitting sarà la prima squadra italiana alle Paralimpiadi: questo aumenta sia la pressione che la consapevolezza e l’orgoglio di stare scrivendo una pagina indelebile dello sport nostrano. Non vedo l’ora di godermi questo sogno olimpico».

La squadra nazionale di sitting volley ha appena sei anni e tu ne fai parte dagli inizi. Cosa vuol dire veder nascere uno sport?

«All’inizio eravamo una squadra nuova e molto inesperta: non è stato facile affrontare le prime competizioni internazionali contro rivali forti. In questi sei anni ci siamo impegnate in un percorso graduale e costante di crescita, sacrificio, allenamento per migliorarci».

La vostra storia testimonia che i limiti non esistono. Nel tuo percorso c’è stata una tappa cruciale verso la consapevolezza di ciò?

«L’unico limite è culturale: fa apparire impossibile che una persona con disabilità possa praticare sport. Nel 2007 mi apprestavo a partecipare alla prima competizione in Fipav. L’arbitro, inizialmente, non voleva farmi giocare: secondo lui si trattava di un campionato per soli normodotati, ma io disputai la partita in questione e tutte le successive, ottenendo la promozione. Sono arrivata a giocare titolare con quella squadra, la Volley Cenide, fino alla serie c. Se allora non mi fossi ribellata con tutta me stessa contro una tale ingiustizia probabilmente adesso non sarei qui. La scintilla verso la consapevolezza va cercata dentro se stessi, anche se avere intorno gente che crede in noi sicuramente aiuta molto: la mia famiglia è stata imprescindibile».

Cosa ti sentiresti di dire a un giovane atleta meridionale che sta incontrando ostacoli e sta facendo mille sacrifici nella sua terra?

«Gli consiglierei di non arrendersi ed eventualmente di provare a costruire qualcosa sul proprio territorio. Al primo campionato nazionale di sitting volley ho partecipato con la maglia della mia città, la Volley Cenide Villa: mio padre era il presidente (uso il passato perché purtroppo ci ha lasciato pochi mesi fa) e mio fratello è l’allenatore. Abbiamo avvicinato parecchi atleti alla pallavolo, anche se non siamo riusciti a rintracciarne con disabilità: qui non esistono ancora realtà di sitting volley. Infatti poco dopo è arrivato il mio prestito al Dream Volley Pisa, per me ormai una seconda casa».

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