X
<
>

Un gruppo di piccoli nei pressi del dormitorio dell'orfanotrofio di Sakété

Condividi:
13 minuti per la lettura

PORTO NOVO (BENIN) – Quando la donna che lo salvò si accorse di lui, Jean Rosè stava in un angolo della foresta, sporco di sangue e terra rossiccia. Passando da lì per raggiungere il fiume Ouémé, avvertì i lamenti che sembravano quelli di un gatto, invece erano di un bambino gettato via come fosse una carta, una lattina, un copertone bucato, una cosa, pieno di ferite alla testa, le gambe, un braccio e la mano destra fuori uso. «Gli avranno dato un sacco di botte, potete tenerlo voi?», disse la signora bussando alla porta dell’orfanotrofio Saint Augustin di Sakété, un paesino a 30 chilometri da Porto Novo, la capitale politica del Benin. Siamo in Africa occidentale, ai confini con Nigeria, Togo, Burkina Faso e Niger, un po’ più su dell’Equatore, in quel dolce e accogliente Benin dove non si combattono guerre, ma ferito e umiliato dai colpi di cannone della miseria.

In questa ex colonia francese, oggi uno dei paesi più poveri del pianeta, il reddito medio (per chi ce l’ha, un lavoro) è meno di 100 euro al mese e quasi la metà dei suoi 6 milioni di abitanti si alza al mattino (quando dorme, perché la lotta per sopravvivere si fa anche di notte) senza sapere se arriverà a sera. Jean Rosé e i suoi quasi 40 piccoli amici dell’orfanotrofio sono figli di questa guerra. Il nome, Jean Rosé, lo scelse soeur Marie Stella Lafia, che comanda il drappello di consacrate “arruolate” su questo fronte di battaglia. Sono in quattro: Marguerite, la cuoca, Regina, che fa l’infermiera, e poi Mathilde e Chaterine che si occupano delle novizie. Il lavoro con i bambini è sulle spalle di Marie Stella. Lei combatte con fierezza e coraggio da samurai. E da numero 10 poi, con visione di gioco alla Gianni Rivera: conosce perfettamente, dentro e fuori, uno per uno; sa come trattare con ciascuno, sa come consolare e come riprendere, tra dolcezze e fermezze, sa come calciare quell’assist perfetto per cavare un sorriso in mezzo a una partita che di fatto hanno già perso prima di entrare in campo. «Oggi avevi la divisa sporca, non va bene; tu non hai voglia di studiare, non costringermi a punirti»; «fammi vedere se hai la febbre…»; «mettetevi a dormire, più tardi mangiamo il dolcino», un perenne affaccendarsi tra regole, educazione e balsamo per questi piccoli diseredati tra i diseredati del Benin.

Don Ennio Stamile

«Un lavoro immane, vitale», commenta con noi, osservandola all’opera, don Ennio Stamile, fino a settembre scorso referente di Libera in Calabria, fondatore dell’associazione San Benedetto Abate di Cetraro, nell’Alto Tirreno Cosentino, che dal 2007 sostiene l’orfanotrofio di Sakété e che abbiamo seguito in questa missione di fine autunno. «Quando arrivai per la prima volta, nel 2004, ebbi l’impressione netta che si trattasse del posto più sperduto al mondo, dimenticato dagli uomini», racconta, spiegandoci che per un certo periodo questa struttura dalla singolare architettura stile portoghese, nata nei primi del ‘900, ha accolto anche ragazze in grave difficoltà, e come queste testimoniassero la loro tristezza soltanto con lo sguardo. «Nonostante le suore tentassero, con tutta la loro straordinaria umanità, di consolarle, di strappargli un sorriso. Ho ancora ben in mente il viso di una ragazzina di appena tredici anni, si chiamava Anne Marie – ricorda Stamile –, alla quale chiedemmo di fare una foto di gruppo alla fine della nostra visita. Disse di aspettare, perché avrebbe dovuto indossare un vestito più decente. Nonostante l’abbandono, non aveva perso la dignità».

Nessuno dei bambini del Benin ha perso la dignità. Li incontri a ogni angolo, a tutte le ore, tra polveroni, fango, anche gli acquazzoni, il traffico alienato, lo smog, Scartano come acrobati automobili e motorini, uno sguardo al countdown elettronico dei semafori, tentando di vendere sacchettini di mele, arance, di acagiù, gli anacardi, e tra i più svariati prodotti. Quanti riusciranno in questa impresa a rischio vita costante? Pochissimi. Ma loro ti guardano negli occhi senza mai abbassarli, salutandoti, sorridendo, riprovandoci, dribblando folla e mezzi, ora dopo ora. Quelli a cui la dignità l’hanno strappata sono invece i vidomègon, i bambini “prestati” dalle famiglie indigenti a quelle ricche che finiscono per diventare schiavi. Letterale. Un fenomeno odioso, che riguarda specialmente le bimbe. Anche la tratta dei minori è una pratica diffusa: secondo i dati dell’Unicef, oltre 200mila finiscono in questa rete. L’infanzia negata, dove una delle più grandi piaghe è l’accesso allo studio. Il dato è spaventoso: il 49 per cento non ha mai visto un’aula, una lavagna, non sa scrivere, né leggere, né contare, non ha mai giocato nel cortile, seppur sudicio, di un istituto. Metà della popolazione infantile, dunque.

I bambini circondano don Ennio Stamile col suo carico

Istruzione, diritti. E poi la sanità, disastrata. Non a caso da ben 14 anni il gruppo di don Ennio opera nella trincea dell’ospedale di “Auberge de l’Amour Redempteur” di Dangbo, poverissimo villaggio a nord di Porto Novo. Tra gli altri progetti, e questo grazie anche al sostanziale sostegno economico della diocesi di San Marco Argentano e del suo vescovo, Leonardo Bonanno, la realizzazione di un sorprendente reparto dialisi. Sorprendente perché al pari, se non migliore, di tante dialisi in Calabria. Così, insieme con i volontari dell’associazione sono volati in Benin anche due nefrologi e un tecnico: Aldo Foscaldi, che lavora all’ospedale di Castrovillari, e Roberto Pititto, responsabile del centro di emodialisi ad Amantea, con Francesco Zappone; il primo al suo esordio in Africa, Pititto e Zappone, specializzato dalle mani sporche d’olio che fa miracoli, come direbbe Lucio Battisti, veterani, perché da vent’anni anni fanno avanti e indietro almeno due volte all’anno, se non di più, Calabria-Eritrea. In quell’altro pezzo d’Africa tormentato hanno creato di sana pianta la dialisi, che non esisteva. Qui a Dangbo sarà pronta a febbraio prossimo. Ma a vedere già in funzione i due “reni” – si chiamano così, in gergo, le macchine – partiti con un container dall’Italia a metà settembre e arrivati in Benin soltanto qualche settimana fa, con supplemento di intraducibili peripezie per sdoganarli dal porto di Cotonou, è davvero un’emozione. L’Africa è sempre una grande emozione.

Una delle due sale di emodialisi, da sinistra: Francesco Zappone, Roberto Pititto e Aldo Foscaldi

«Tempo fa – racconta Pititto – ero all’ospedale di Asmara (capitale dell’Eritrea, ndr) e vedo arrivare un bambino che faceva un baccano terribile, mentre la madre, sorridendo, mi chiedeva se lo avessi riconosciuto. Lo avevo curato tre mesi prima, ed era guarito. Si erano fatti 200 chilometri a piedi soltanto per venirmi a ringraziare». Se qualcosa va storto, in Italia, i medici rischiano finanche la vita (Calabria docet). Qui ti ringraziano anche in caso di morte, perché sanno che tu hai fatto per loro il possibile. Aldo Foscaldi ne sa qualcosa, nella sua lunga esperienza nei presidi di frontiera calabresi ne ha viste di tutti i colori. «La malasanità è anche questa da noi – denuncia, sconsolato –, e la politica non ci permette di lavorare in condizioni decenti. Al primo posto ci sono i malati e le esigenze del territorio, invece sono all’ultimo. Se potessi andrei via oggi stesso. In Africa? Perché no, è la mia prima volta, ho visto da vicino la grande umanità di questa gente, i loro bisogni primari, la loro tristezza». Tristezza gratis. Come in quella magnifica canzone di De André, l’Africa è una bellissima, struggente “signorina” fatta a pezzetti, che – canta a fine giornata Francesco Zappone, allietando il gruppo con la sua chitarra, coprendo lo stridente richiamo alla preghiera dei muezzin dai numerosi minareti che circondano il piccolo quartier generale dell’associazione San Benedetto Abate, ad Agbokou Gbécon – “il vento raccoglierebbe”, mentre la luna ne “tesserebbe i capelli e il viso”.

Conny Aieta

Conny Aieta, deus ex machina del team di don Ennio Stamile, coordinatrice dei progetti – tra gli altri quello per la realizzazione di un villaggio culturale, la Maison Saint Benoit – e Maria Concetta Crupi, presidente della cooperativa “Upendo” (significa “amore”, in lingua swahili, ma è quella dell’Africa orientale, centrale e meridionale, perché in Benin si parla il fon, oltre che il francese), costola dell’associazione, se lo ricordano bene quello di Emanuela quando arrivò a Sekété. I suoi genitori, benestanti produttori di grano, senza più un franco dopo che un santone diagnosticò a sua madre una malattia allo stadio terminale, costringendo il papà a dilapidare un patrimonio dietro a fantomatiche cure. Alla piccola toccò l’orfanotrofio. Ricordano bene quello di Seglà, che a un anno e mezzo di vita fu lasciato solo chiuso in una capanna, e sebbene così piccolo riuscì a scavare nella terra con una mezza noce di cocco secca aprendosi un varco e liberandosi. Ricordano bene il viso di quella mamma che una mattina bussò a alla porta dell’orfanotrofio chiedendo di andare in bagno: suo figlio, Carlito, nacque proprio in quel gabinetto. Ricordano anche quello di François. Aveva un gemello che non ha mai conosciuto perché i genitori abbandonarono soltanto lui; era pieno di vermi in pancia quando arrivò qui, non si reggeva in piedi. «Non gli piace molto studiare – sorridono, Conny e Maria Concetta – ma è un bambino che è rinato. Non ce la faceva a pronunciare una sola parola, oggi riesce anche a imitarti se gli parli italiano».

Sono paradossalmente anche fortunati i quaranta di Saint Augustin. In Benin, la culla della religione vudù, dove la metà della popolazione vive in condizioni di povertà estrema, che dentro l’anima ha ben impresse le pene della tratta degli schiavi – dalla costa, sull’Oceano Atlantico, e dal suo luogo simbolo, Ouidah, le navi negriere imbarcavano donne e uomini – i bambini non hanno giustizia. Sin da piccolissimi sfruttati per strada, nell’edilizia, nei campi. Oppure a spaccare pietre, come a Dassà, Colas, Bembereke. Li chiamano i concasseurs, letteralmente spaccapietre, costretti a faticare anche per dieci ore al giorno. Una vergogna mondiale, come quella dei bimbi nell’inferno delle miniere di coltan e cobalto del Congo. Schiere di piccoli spettri, schiavi dell’era moderna, e delle logiche impazzite del capitalismo a ovest e a est del mondo. Schiavi al nostro servizio, anche, visto che quei minerali estratti in condizioni proibitive sono componenti, tra gli altri utilizzi, degli smartphone che abbiamo tra le mani per trastullarci con beata e colpevole incoscienza su Instagram o Tik Tok e alle loro spalle. Spalle spaccate, bruciate dal sole, schiacciate dal piede di un padrone.

È solo un caso che per gli ospiti dell’“isola” di Saint Augustin non sia andata così. Questa sorta di grande paracadute, se non certezze, dona loro almeno qualcosa che a queste latitudini, e fuori da quel cancello, nel buio di vite trascinate nella polvere, non esiste: la speranza. Latifou ha 22 anni e qui all’orfanotrofio fa l’allenatore di pallone. Viene il mercoledì a far giocare i bambini e le bambine di Sakété, alcune bravissime con i piedi.

Il giovane coach di calcio con i bimbi di Sakété

«Certo per me che gioco a calcio sarebbe un sogno venire in Italia – ci dice –, però sono contento, riesco a dare una mano. Insegno loro i fondamentali, ma è soprattutto un modo per farli divertire, e chissà se qualcuno potrà poi un giorno diventare come ‘Mbappe (attaccante del Paris Saint-Germain e della Nazionale francese di origini africane, ndr)». Anche Jean Rosé partecipa. Si fa avanti col suo aggeggio di legno che gli serve per camminare. Peccato che il falegname che l’ha costruito ha tralasciato di limare le ruote, che girano a singhiozzo. Lo vedi avanzare lo stesso, tenace, instancabile. «Un bimbo che ha tanta voglia di vivere», dice Conny, appena rientrata con lui dall’ospedale di Cotonou, la capitale economica del Benin, per una Tac alla testolina. I volontari dell’associazione calabrese fanno avanti e indietro con l’orfanotrofio. Una piccola odissea stradale tutte le volte. Oggi è di lusso, perché per arrivare qui da Porto-Novo fino a due anni fa era un’impresa titanica visto che occorreva percorrere una lunghissima pista sterrata, un campo da combattimento dove, prima di entrarvi, avresti fatto meglio a fare il segno della croce e indossare un elmetto. Da quando il governo ha deciso di asfaltare, durante il viaggio si riesce finalmente a godere di un panorama unico, che invoca e celebra, tra la foresta e le misteriose arterie che si perdono nei villaggi interni, comprese le pompe di benzina abusive a ogni pizzo con quei bottiglioni pieni di carburante acquistato a poco prezzo nella vicina Nigeria, le più belle narrazioni sul Continente, da Conrad alla Blixen.

Ne sa qualcosa Carlo Antonio Costarella, chirurgo in pensione, veterano della brigata calabrese. La sua prima volta in Benin fu nel 1985. «A un certo punto scoprii che la medicina in Italia non era quella che io sognavo. Volevo fare il medico, aiutare donne e uomini, non mi interessavano i soldi. Così – racconta – mi rivolsi ai Laici per il terzo mondo di Napoli, e da lì subito in Africa». Un visionario, Costarella, perché l’idea di costruire un ospedale in mezzo al villaggio di Dangbo fu la sua. Il resto è una lunga storia tra sogni, sudori, difficoltà abissali, e tutti gli anni, tanti, che ci vollero da quella visione alla posa della prima pietra. In mezzo anche l’attraversamento del deserto del Sahara, per tre volte. Una addirittura con la sua vecchia Arna Alfa Romeo grigia, quando chiunque gli diede del matto, finanche i Tuareg, o quel suonatore di flauto traverso che stava dietro a una collinetta che sembrava un miraggio e invece era proprio in carne e ossa. Come questo ospedale, pietre, carne e ossa povere. Ma vive. Non siamo al Sant’Orsola di Bologna, ma è un presidio indispensabile. «Abbiamo tantissimi problemi, io spero però che un giorno diventi un grande ospedale per tutta la valle, per tutti quelli che non possono permettersi la sanità pubblica troppo cara. Qui costa davvero poco, ma è necessario, altrimenti dovremmo chiudere», dice suor Opportune, medico e direttore sanitario di “Auberge de l’Amour Redempteur”. Medicina generale, ostetricia, pediatria, due volte alla settimana la chirurgia, una farmacia e un laboratorio analisi. Un miracolo, in una terra dove non esistono miracoli. Ora si è aggiunto quello dell’emodialisi. «Esistevano tre centri in Benin – chiarisce don Ennio Stamile, che ha appena finito di scaricare il container rovente insieme con volontari e gli stessi medici –, a Cotonou, Porto-Novo e a Parakou, oltre a quelli privati. Adesso il nostro, sono davvero felice. Potremo alleviare tanta sofferenza». Per la cura della tristezza, invece, occorre attrezzarsi come si può. Quella, qui in Africa, è gratis. Come cantava De André.

Condividi:

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

EDICOLA DIGITALE