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CHI può raccontare la Calabria? I calabresi, certamente. Il recente post di una nostra apprezzata scrittrice offre lo spunto per un dibattito controverso, quello secondo cui (questo ha scritto su Facebook) di Calabria possano e debbano dire coloro che la vivono ogni giorno, cioè quelli che sono rimasti.

Nella nostrana società delle lettere, il post ha prevedibilmente sollevato un polverone con commenti focosi (e qualcuno davvero infuriato da certi passaggi – invero evitabili e fuori luogo – sul ritorno dei romanzieri per le ferie estive e le loro presentazioni tra amici), ma in queste righe non si faranno nomi (tutti noti e stimati) né si ripercorrerà la polemica social, chiusa da un successivo intervento dell’autrice amareggiata dai toni del dissenso, dove, spiegando di essere stata fraintesa, in parte ritrattava le proprie parole e citava Corrado Alvaro e Saverio Strati, che abitarono altrove ma la loro terra la conservarono nello sguardo: concludendo che i due grandi nell’anima vissero qui, sempre.

Un evidente, parziale dietrofront, ma inevitabile. Perché affermare che abbiano diritto di letteratura soltanto i calabresi che non hanno lasciato la Calabria è assurdo, oltre che un falso storico. Mario Desiati, romano di adozione, ha dedicato il premio Strega ai conterranei pugliesi e gli eroi del suo romanzo sono “spatriati”, giovani in cerca di un’identità e un senso dell’esistenza, che troveranno sospesi tra Martina Franca e Berlino. Scrittori e artisti del Sud sono quasi tutti uomini e donne con la valigia da molte generazioni: metterli in una lista di voci non attendibili perché lontani e sprovvisti di un militaresco green pass di residenza significherebbe depennare in un sol colpo i nostri più eccellenti nomi ma anche tanti talentuosi autori contemporanei (Carmine Abate, di lunga cittadinanza tedesca addirittura, Gioacchino Criaco, e poi Angela Bubba, Domenico Dara, Rosella Postorino, Fausto Vitaliano, Emmanuele Bianco, Maurizio Fiorino). Impossibile elencarli, si farebbe notte. E la nascita e successiva partenza non rappresentano l’unico fulcro della questione.

Senza voler scomodare lo splendido forestiero Edward Lear, il recente esempio del regista Jonas Carpignano dimostra come spesso la Calabria si trasformi in luogo caro e ispirazione creativa anche per chi non è nato qui. Insomma, l’assunto della scrittrice è sbagliato sicuramente nella forma in cui è stato espresso (che presta il fianco a sospetti di frecciate e battibecchi nell’ambiente editorial-culturale), ma anche come concetto tout court. Il racconto di un territorio non può assoggettarsi a criteri di campanilismo e se gli occhi dell’altro – di chi ci osserva da fuori – sono guidati da sincera curiosità o persino da amore, non è mendace e al contrario ci arricchisce.

Le narrazioni finte e permeate da snobismo, del resto, i calabresi le sgamano subito, come le operazioni di marketing. Qui il Re è facilmente nudo – non avremo fama di teste permalosi senza motivo. Nelle pagine dei libri dunque lo straniero colpito da un languido “mal di Calabria” deve passare, e certe volte rimane qui. Parimenti i calabresi che se ne sono andati, che siano trafitti dalla saudade dell’emigrante o tormentati da una conflittualità sentimentale, la Calabria ce l’hanno dentro pure se parlano d’altro o ambientano le loro storie in diversi territori (senza essere per questo accusati di alto tradimento). La Calabria ci appartiene, e se un detto proverbiale dice che noi siamo dappertutto, questo filo non si spezza mai. Il provincialismo invece ci fa molto male, e di ulteriore autolesionismo non abbiamo bisogno.

C’è però un rovescio della medaglia di cui si parla poco. L’antropologo Vito Teti (uno che in Calabria è tornato) nel suo ultimo libro “La restanza” (Einaudi) parla della condizione di chi resta e “si sente ancorato e insieme spaesato in un luogo da proteggere e nel contempo da rigenerare radicalmente”. Fuori da ogni romanticismo, bisogna dire che nel campo delle arti e la letteratura accade ancora più di rado che negli altri. Ma qualche scrittore che non ha fatto la famosa valigia esiste, ed è ugualmente riuscito a produrre cose meravigliose. Santo Gioffré e Mimmo Gangemi si sono affermati nel panorama editoriale nazionale e due loro libri (“Artemisia Sanchez” di Gioffré e “Il giudice meschino” di Gangemi) sono diventati film televisivi. E ci sono Katia Colica, narratrice degli ultimi e delle periferie; Nadia Crucitti, che tra l’altro fu autrice di una delle saghe più belle degli ultimi decenni, il romanzo “Affetti familiari”; la vibonese Sonia Serrazzi, esordio folgorante con “Non c’è niente a Simbari Crichi”, seguito da due libri altrettanto geniali, che è un po’ la nostra Elena Ferrante, difficile da raggiungere se non nella lettura delle sue storie, allergica a internet e fiera abitante del suo genius loci. Si ama, si combatte, si lotta.

Si scrive pure da qui, e bene. Non è una lotta ideologica tra fazioni ed è sterile, oltre che doloroso, cavillare con l’accetta se ci voglia più coraggio a partire o rimanere. Nella storia dei singoli, dei popoli e dei luoghi non si vincono trofei. La Calabria è di tutti quelli che a ogni latitudine la portano nel cuore e vogliono raccontarla.

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