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L'aula bunker che ospita il processo Rinascita Scott

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SECONDA giornata della deposizione del collaboratore di giustizia, Bartolomeo Arena e udienza fiume che ha visto trattare, su domanda del pm della Dda, Andrea Mancuso, da quest’ultimo una miriade di argomenti, sia afferenti la situazione criminale dei vari centri del territorio (Vibo, Sant’Onofrio, Vibo Marina) in diversi periodi, sia figure legate agli ambienti criminali, tanto di spessore quanto di secondo piano.

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LA COLLABORAZIONE DI MANTELLA

Nel maggio del 2016 una notizia scuote il mondo criminale vibonese (e non solo) Andrea Mantella si pente a pochi giorni dalla sua scarcerazione (LEGGI). La notizia coglie tutti di sorpresa, e quindi anche i componenti del gruppo. Ma chi la prese male tra Salvatore Morelli e Francesco Antonio Pardea e Mommo Macrì fu proprio quest’ultimo: “La prese malissimo – afferma Arena – Addirittura partì da Vibo per andare in provincia di Cosenza, dove la compagna di Mantella aveva una villa, pensando di trovarla lì, e tramite lei cercare di farlo desistere”.

LA SPARATORIA IN PIAZZA

La collaborazione di Andrea Mantella portò alla formazione di due gruppi anche se il movente principale nasce dal tentato omicidio del cugino del pentito, Domenico Camillò (il giovane), figlio di Giuseppe “per il quale stravedevo”, cugino del collaboratore, e dal ferimento di Loris Palmisano, avvenuto nel 2016 in piazza Municipio.

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Un episodio che avrebbe potuto anche portare ad una guerra intestina se non fossero intervenuti gli Alvaro di Sinopoli: “Da una banale lite tra giovani per questioni afferenti ad una ragazza, stava per far scoppiare il finimondo”, ha commentato il collaboratore raccontando la dinamica del ferimento e gli sviluppi: “Michele Macrì prese in giro la fidanzata di Loris Palmisano il quale ovviamente si lamentò e pertanto ne nacque una discussione. Intervenne anche Camillò e questi ultimi due si rividero poco dopo; erano entrambi armati: mio cugino esplose dei colpi ma qualcuno gli spostò la mano e i proiettili finirono col prendere Mirko Lagrotteria ad un polpaccio, mentre Palmisano, che aveva libertà di azione, attinse Camillò in più parti”.

LA “BOMBA” ERA ORMAI DEFLAGRATA

“L’indomani – ha narrato ancora Arena – mi hanno notiziato di quanto avvenuto e mi è caduto il mondo addosso perché Domenico era come un fratello, un ragazzo speciale dal punto di vista ndranghetistico”.

La rappresaglia fu immediata: “Ci mettemmo alla caccia di Palmisano, ma ad un certo punto a Vibo è arrivato tale Antonio Rognetta che fa parte degli Alvaro di Sinopoli – – famiglia nota per fare da paciere – che conosceva Carmelo Lo Bianco, alias “Sicarro”, cercò di mediare. Ma anche io, Domenico Camillò e Antonio Macrì andammo a parlare con “Sicarro” per esporre la situazione e la necessità di conferire direttamente con gli Alvaro, cosa che avvenne successivamente e che portò ad un chiarimento. Palmisano non avrebbe dovuto fari vedere a Vibo per almeno sei mesi nella speranza che tutto sarebbe rientrato”.

Ma Palmisano non rispettò i patti e già prima che lo accoltellassero, fu visto “in città insieme a Luigi Federici, che era il suo braccio destro e che poi passò con noi perché mio cugino lo aveva preso in simpatia”. Una sera “Antonio Macrì (il piccolo) mi disse che dovevano andare a sparargli e di dargli quindi una pistola. Quella volta, però, ci fu una presenza importante delle forze dell’ordine, non so perché, alla fine fummo fermati dalla Polizia ma gli altri riuscirono a disfarsi in tempo delle pistole”.

LA VENDETTA È CONSUMATA

Tuttavia, il ferimento del giovane sarebbe stato solo ritardato di qualche giorno: “Domenico Camillò, nonostante si trovasse a Milano, conosceva i movimenti di Palmisano e avvisò Pardea che quella sera Palmisano sarebbe andato a trovare una ragazza.

Nella mattinata successiva, alle prime luci dell’alba, Pardea mi chiamò avvisandomi della sua presenza in quella abitazione. Mi vestì, presi una pistola calibro 6,35 e andai a casa di Giuseppe Camillò e poi con Pardea ci appostammo nei pressi in cui abitava questa ragazza. Quando lui (la vittima, ndr) scese l’afferrammo da dietro.

E qui, il collaboratore sottolinea che inizialmente l’obiettivo era solo di picchiare Palmisano, di rinchiuderlo da qualche parte per far scattare l’allarme della famiglia e far capire a tutti, Alvaro compresi, che questi “non rispettava i fatti”.

Ma la cosa non andò così: “Pardea iniziò invece ad accoltellarlo, c’era sangue dappertutto, sui muri, a terra. Palmisano diceva di lasciarlo andare che non se la sarebbe cantata”.

LA SCISSIONE

Fu, questo, lo spartiacque perché nel 2016-2017 il gruppo si scisse: “Noi facemmo presente la situazione ai Lo Bianco che non potevamo stare con queste persone con cui avevamo avuto lo scontro.

Gli Alvaro, tra l’altro, ci fecero sapere che avevamo fatto bene e che, anzi, loro avrebbero fatto anche peggio. Io ne parlai con Enzo Barba e così insieme a Giuseppe Camillò mi distaccai, mentre Antonio Macrì la prese a male perché restò con loro salvo poi lasciarli a seguito della fuoriuscita di suo figlio “Mommo” dal “buon ordine””.

Anche Francesco Antonio Pardea si rapportò poi “con Raffaele Franzè e Domenico Camillò manifestando l’intenzione di fondare un altro sodalizio, con Michele Pugliese Carchedi, Michele Manco, Domenico Camillò, Michele Camillò destinatari dei rialzi di cariche di ‘ndrangheta. Mio zio Mimmo inizialmente ci disse che ci avrebbe portato a Polsi per farcele riconoscere, ma poi fece marcia indietro dicendo che non voleva saperne più nulla”.

Nel 2017, quindi, le dinamiche criminali nella città di Vibo “erano caratterizzate dall’azione del nostro gruppo. Con i lo bianco mantenevamo comunque rapporti formali, solo “Mommo” Macrì voleva fare la guerra a loro”.

I SODALIZI RIVALI

L’ulteriore parte della deposizione di Bartolomeo Arena ha riguardato i rapporti di forza all’interno del contesto malavitoso vibonese, dal proprio gruppo di appartenenza e di quello rivale dei Pardea – facendo nomi e cognomi, anche di persone non imputate al processo – soffermandosi su ogni singola figura della quale ha menzionato non soltanto le parentele ma anche il ruolo ricoperto all’interno dell’uno o dell’altro sodalizio.

I PUGLIESE, RIVALI DA ELIMINARE

Bartolomeo Arena era legatissimo ai Pardea e ai suoi cugini “ma nell’ultimo anno ci eravamo allontanati, erano successi disguidi e “tragedie”. Dall’altro lato del gruppo c’erano i Pugliese (detti “Cassarola”) che volevano sottomettere i “Pardea Ranisi” perché erano stati “i mandanti dell’uccisione di Cecchino Pugliese, fratello di Rosario Pugliese, e quest’ultimo avevano ucciso Francesco Antonio Pardea (il grande).

E così, nel 2019, Francesco Antonio Pardea “voleva eliminare Rosario Pugliese perché lo riteneva il responsabile dell’uccisione proprio dello zio omonimo e soprattutto perché la famiglia voleva riprendere potere e prestigio su Vibo Valentia. Tra l’altro, Rosario Pugliese sarebbe stato sicuramente ucciso ma l’ho salvato io iniziando la mia collaborazione con la Dda. Ma non mi andava di partecipare alla sua uccisione e sono contento che non sia avvenuta”.

Francesco Antonio Pardea, tuttavia, non sarebbe l’unico a far fuori la vecchia guardia: “Domenico “Mommo” Macrì aveva in proposito di ammazzare Paolino Lo Bianco, tant’è che diceva di avere nascosta una pistola al cimitero per utilizzarla a tal scopo, mentre Salvatore Morelli voleva fare lo stesso con Filippo Catania ma non so per quale motivo”.

LA SIMULAZIONE DI SPARIZIONE

Ad un certo punto, il 30 aprile del 2019, Bartolomeo Arena e Francesco Antonio Pardea spariscono nel nulla. L’auto viene rinvenuta allo svincolo dell’Angitola. Anche se inizialmente si era pensato ad una lupara bianca, alcuni aspetti avevano fatto pensare ad un allontanamento volontario. Si rifaranno infatti vivi dopo un mese. Ma in quel tempo molte cose sono successe.

Racconta il collaboratore: “Pardea aveva appreso dell’imminenza di un’operazione su Vibo ed era convinto che sarebbe rimasto colpito da un’ordinanza cautelare a seguito delle dichiarazioni di Mantella. E così un giorno mi disse: “Sai che facciamo? Ce ne andiamo entrambi, tutti credono che siamo scomparsi, anche perché mio zio e tuo padre erano stati vittime di lupara bianca, e invece andiamo al Nord a sistemarci le nostre cose. Lì avevamo iniziato ad avere dei contatti con gente dell’area di Nerviano (Mi) perché spedivamo la marijuana per la vendita. Ci saremmo creati una base per lo spaccio, anche se Pardea aveva già altre intenzioni, che compresi quando arrivai lì, vale a dire aprire una Locale di ’ndrangheta”.

I due lasciarono quindi l’auto al bivio dell’Angitola, dove li venne a prendere “un ragazzo che ci mandò Mario De Rito. Ma prima di sparire, Pardea andò da un avvocato per capire quali sarebbero state le ripercussioni giudiziarie per la violazione della sorveglianza”. Nerviano rientrava nella Locale di Seregno ma era tuttavia “libera” anche se “il permesso l’avrebbe dovuto concedere Leonardo Prestia, nominato da Vincenzo Gallace di Guardavalle; ne parlammo anche con Filippo Grillo e per capire se la cosa era fattibile e lui rispose che ne avrebbe discusso con lo zio”.

Mentre con Demetrio Quattrone, “affiliato della cosca De Stefano, e legatissimo a Carmine”, il discorso ruotò attorno agli affari: “Ci aveva riferito che potevamo ottenere finanziamenti, perché Filippo Grillo aveva individuato un canale col Sud America”.

Con i due spariti nel nulla, e senza avvisare alcuno del gruppo, i loro sodali stavano per scatenare una guerra: “Sì – racconta ancora Arena -, perché Domenico Camillò e Domenico Macrì, insieme a Michele Pugliese Carchedi, stavano per uccidere Paolo Lo Bianco in quanto lo ritenevano responsabile della nostra sparizione”. Al loro ritorno, dopo un mese, il sodalizio si scisse nuovamente: “Io e Pardea abbiamo “rimpiazzato” gli altri ragazzi (quello del gruppo di Macrì, ndr) ma ce ne siamo stati più defilati, pur essendo della stessa “famiglia””.

LA COLLABORAZIONE

Erano successi alcuni eventi poco prima dell’avvio della collaborazione di Arena con la Dda: la nascita del figlio con la conseguente necessità di allontanarlo da quei contesti violenti, l’avvicinamento di Pardea ai Sangregoresi e ai Mancuso e il timore di essere ucciso: “Sapevo che i Pardea si rispettavano con i sangregoresi, ma non sapevo che in realtà erano legati a filo doppio da anni e non da poco, e questa cosa non la presi bene (perché il collaboratore li ritiene tra i responsabili dell’uccisione del padre, ndr). Poi Francesco Antonio Pardea iniziò ad avvicinarsi ad esponenti dei Mancuso, in particolare ad uno dei Gallone, famiglia vicina a Luigi Mancuso”.

E tutti questi cambiamenti lo portarono a capire che “avrei dovuto guardarmi anche dai Pardea stessi perché forse in passato qualche regia occulta l’avevano avuta”.

A gettare benzina sul fuoco “era Mommo Macrì che metteva zizzania tra me e Francesco Antonio Pardea al quale diceva che la mia era una famiglia che era sempre stata alleata dei Fortuna. Tra l’altro una volta, nel 2017, per proteggere Mommo, mi avevano sparato insieme a Domenico Camillò e ad Antonio Macrì (il padre, ndr).

IL FERIMENTO A NAZZARENO PUGLIESE

Il 27 settembre del 2017 “Macrì sparò a Nazzareno Pugliese, nipote di Rosario, all’Affaccio. “Mommo” mi venne a raccontare il fatto, al ché gli chiesi il motivo e lui mi rispose che l’aveva guardato male. Pertanto cercai di mettermi in contatto con Pardea ma ci riuscì solo tarda sera, quindi avvisai Antonio Macrì (padre di Mommo) e Giuseppe Camillò e ci mettemmo in auto per cercare di intercettare Cassarola. Ci dissero di averlo visto nei pressi del Despar, vicino casa di Mommo e lì, quindi, ci recammo. In effetti, Rosario Pugliese era sul posto, ad un tratto ci notò e ci seguì; noi facemmo una manovra e ce lo ritrovammo di fronte. Proprio mentre per scendere, pronto a spararci, in quel momento passò una signora dal Despar e per noi fu l’occasione per allontanarci, sentimmo i colpi ma non fummo colpiti”.

Domenico Macrì, una volta appreso quanto avvenuto “si sentì in colpa e andò all’Affaccio a sparare alle case dei Pugliese; qualche giorno dopo Domenico Camillò e Luigi Federici commisero la sparatoria al circolo “Il Gallo”.

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