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Le armi e le munizioni ritrovate nel rifugio di Giuseppe Salvatore Mancuso

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VIBO VALENTIA – «Cu sa cantau?». Quando Giuseppe Salvatore Mancuso si è trovato davanti i carabinieri la sua reazione è stata questa, spontanea, immediata. Il rampollo dell’omonimo casato mafioso di Limbadi è rimasto praticamente di sasso nel momento in cui gli uomini coordinati dal capitano Nicola Alimonda e dal maggiore Valerio Palmieri e dal capitano Alessandro Bui hanno sfondato la porta entrando in quell’anonima abitazione nel piccolo borgo di Zaccanopoli.

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Lui si trovava in una stanza, mentre gli altri occupanti dei locali, un uomo ed una donna di nazionalità caraibica, in un’altra. Poco distante, l’arsenale costituito da una pistola, un fucile di precisione con apposito mirino, passamontagna ed altri oggetti che hanno fatto presupporre agli inquirenti che si stesse organizzando qualche attentato omicidiario.

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Era braccato, insieme al padre, il boss Pantaleone alias “L’ingegnere”, da poco più di un anno, da quando, cioè, suo fratello Emanuele aveva deciso di “saltare il fosso” avviando la sua collaborazione con la Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, sottraendosi così alla sorveglianza speciale che gravava su di lui.

Ma mentre il primo, la scorsa primavera, era stato individuato in una sala Bingo a Roma (LEGGI), lui era invece riuscito a sottrarsi ancora per qualche mese. Non si sarebbe mai allontanato dalla provincia, potendo contare su una serie di contatti e relazioni che gli hanno consentito di sottrarsi alla cattura. Fino all’alba di mercoledì.

E quindi torniamo alla sua frase: “Cu sa cantau?”. Sì, perché Giuseppe Mancuso era sicuro del posto scelto: un paese tranquillo, quasi anonimo (in senso buono s’intende) verrebbe da dire, con poco movimento di auto e passanti. Ed è stato proprio questo l’errore che il 30enne ha commesso e che, di fatto, gli ha spalancato nuovamente le porte del carcere. In un piccolo borgo anche la più impercettibile anomalia non passa inosservata. E di anomalie, in questo senso, ce ne sono state almeno tre: la prima un insistente viavai di autovetture mai viste in paese che sostavano nei pressi dell’abitazione-rifugio; la presenza assidua di persone non del luogo, tra cui alcune ragazze straniere che sono state notate entrare nello stabile; la luce costantemente accesa in quei locali che fino a poco tempo prima erano rimasti praticamente al buio.

Se tre indizi fanno una prova, allora i carabinieri, che hanno dimostrato ottimo acume investigativo, ce l’avevano in pugno. E così, la macchina investigativa si è messa rapidamente in moto con appostamenti discreti, costanti che col passare del tempo hanno fugato ogni dubbio residuo. Giuseppe Mancuso si trovava in quell’appartamento, ormai vi era la certezza pressoché assoluta.

Intorno alle 4 di mercoledì mattina, ancor prima dell’alba, il dispositivo è stato attivato. Oltre una dozzina di carabinieri sono entrati in azione, senza far rumore è stato circondato l’edificio. Un manipolo si è fatto strada all’interno e il resto ormai è noto. “Cu sa cantau?”, domanderà il 30enne con già sul groppone due condanne, di cui una definitiva, per droga, non immaginando mai che quei carabinieri, lì, davanti a sé, di fatto, ce li ha portati proprio lui.

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