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PIZZO (VIBO VALENTIA) – «Il dolore è tantissimo, ma anche la rabbia per come è andata a finire non è da meno. Era una persona che amava la sua vita semplice in campagna, rispettoso delle regole, tanto da passarsi le feste di Natale solo proprio per prevenire possibili contagi; pensare che si sia spento per colpa del covid sentendosi abbandonato, fa male».

Sono ancora molto scossi i parenti dell’uomo di Pizzo morto nella notte tra martedì e mercoledì all’ospedale di Catanzaro dopo neanche 24 ore dal suo ricovero.

Ma per capire la loro rabbia c’è bisogno di fare un passo indietro. Mercoledì 13, durante lo screening organizzato dal comune di Pizzo sulla popolazione scolastica, una donna del personale Ata è risultata positiva, l’unica su più di 800 persone. Si è capito dunque che il virus non circolava a scuola ma nelle mura famigliari della donna, ed infatti il marito è risultato positivo e, subito dopo, è stato sottoposto al test l’unico parente con cui avevano avuti rapporti ravvicinati nelle settimane precedenti, un settantenne, che abitava solo in una campagna nel quartiere Marinella, che è risultato anch’egli positivo. Il tracciamento successivo anzi ha chiarito che è stato proprio il pensionato, uscito un solo giorno a fine dicembre per ottemperare ad una incombenza burocratica, ad essere contagiato e poi a trasmettere a sua volta il virus ai coniugi.

Venerdì pomeriggio l’uomo, insieme ai due parenti si è recato a Vibo per sottoporsi al tampone molecolare e già lì iniziava ad accusare problemi respiratori «abbiamo notato, mentre attendevano in auto che arrivasse il nostro turno, che iniziava a respirare a fatica; tornati a casa gli abbiamo misurato la saturazione ed era a 70. Ci siamo spaventati ed abbiamo chiamato il medico curante che ci ha consigliato di ricoverarlo subito. Nella disperazione lo abbiamo messo in macchina e siamo andati a Lamezia Terme ma lì ci hanno detto che non era possibile il ricovero, di tornare a casa e chiamare il 118 per il ricovero a Vibo Valentia. Stremati siamo tornati a Pizzo e abbiamo chiamato, ma qui la sorpresa, chi risponde al centralino si arrabbia e ci dice che non sarebbero venuti a prenderlo, che toccava al medico di famiglia ordinare una cura da fare a casa. Sabato e domenica lui continua a stare male fin quando lunedì mattina intorno alle 8:30 inizia ad accusare un dolore lancinante allo stomaco. Cerchiamo aiuto, chiamiamo una dottoressa che ci avevano detto che ci avrebbe supportato e poi il nostro medico curante affinché lui stesso chiami il 118. Chiamiamo anche noi più volte, ma ci viene detto che non avevano i mezzi a disposizione, che lo avrebbero messo in lista e sarebbero venuti in giornata, sottovalutando quello che noi dicevamo. Dopo interminabili ore e chiamate, alle 13:30 è arrivata l’ambulanza».

Cinque ore dopo la prima richiesta d’aiuto dunque, i sanitari arrivati sul posto si sono resi subito conto delle condizioni disperata dell’uomo, tanto che dopo l’arrivo all’ospedale di Vibo, il settantenne è stato trasportato a Catanzaro, dove immediatamente è stato intubato, ma ormai era troppo tardi.

«Aveva un infarto in corso, i polmoni erano collassati, un grumo di sangue alla orta, diversi emboli; un medico dell’ospedale di Germaneto per telefono ci ha detto che la situazione era disperata ed abbiamo capito che l’avevamo perso. Non riusciamo a pensare ad altro che a lui è morto solo, a noi impotenti a casa. Ci siamo sentiti ancora di più abbandonati a noi stessi, come degli appestati che non meritavano neanche di essere curati».

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