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Accade sempre così. In ogni crisi di governo. E, poi, nella formazione di un nuovo esecutivo.
In queste due fasi il dibattito politico sul Mezzogiorno assume una dimensione straordinaria. Quando un governo va in crisi è la recriminazione sul Sud tradito ad avere spazio. Qui emerge che le responsabilità dei ritardi dello sviluppo sono sempre degli altri, mai, o poco, dei meridionali e della classe dirigente. Le accuse prevalgono sulla riflessione. I dati Svimez, che denunciano la crescita del dualismo Nord-Sud, nella loro crudeltà allarmano, ma non trovano adeguate risposte. Anche l’indignazione si spegne repentinamente. Come le analisi sul disagio che si dissolvono in un batter d’occhio. Quando poi nasce un nuovo governo, puntualmente la questione meridionale torna alla ribalta. Stavolta non come accusa per il non fatto, ma come speranza e promessa del fare per superare le difficoltà. E’ la fase della suggestione ad avere la meglio, con il presupposto del “si può fare” . “si deve fare”. Poi, però, nulla accade e come un cane che si morde la coda tutto torna come prima. Cambiano i governi, i linguaggi (Piano per il Sud, Masterplan, centralità della questione meridionale, ecc) ma quasi nulla, o poco, cambia nella realtà. Emanuele Felice, osservatore attento della questione meridionale, analizza nel suo ultimo saggio (“Perchè il Sud è rimasto indietro”) i motivi del divario Nord-Sud, ripercorrendo il cammino poco virtuoso delle differenze, soffermandosi, in particolare, sulle responsabilità delle classi dirigenti meridionali. Il tema, non nuovo, propone un interrogativo: c’è nel Mezzogiorno una classe dirigente degna di questo ruolo? O, al contrario, nel Mezzogiorno non esiste classe dirigente, ma solo fenomeni dal sapore antico che fanno riferimento al trasformismo, al clientelismo, all’assistenzialismo non produttivo? Una risposta, non esaustiva, viene dall’agire meridionale che si desume dalla narrazione di ciò che accade nel Sud. Un esempio illuminante del malcostume viene dal provvedimento emanato dal governo gialloverde del Reddito di cittadinanza. Esso si sta rivelando come un danno per l’economia del Paese. una non risposta alla povertà dei meridionali più deboli, l’ennesima occasione per i furbetti senza scrupolo. Esso non solo non crea nuovi posti di lavoro, ma aumenta, come è dimostrato in molti casi, la disaffezione di chi un lavoro già lo ha. Non meno danno per il Sud è generato dalla presenza sempre più invasiva della criminalità organizzata la cui sottovalutazione sta inquinando zone fino a poco tempo fa immuni dalla malapianta. E ancora. Non è affatto un mistero se essa, anche attraverso il voto di scambio, condiziona le Istituzioni, vanificando ogni buona intenzione di ripristino della legalità e della trasparenza. Mi chiedo: potrebbe accadere tutto questo se vi fosse nel Mezzogiorno una classe dirigente gelosa custode del proprio territorio e attenta a difendere le risorse, soprattutto europee, che non mancano, ma sul cui uso distorto sono impegnate, sempre più spesso, le Procure del Sud? Se così è, e non pare vi siano dubbi, la lotta del popolo meridionale, deve essere indirizzata a un bonifica leale e coraggiosa della sua classe dirigente, oggi inconcludente, confusa, che agisce contro il Sud. Accade sempre così. In ogni crisi di governo. E, poi, nella formazione di un nuovo esecutivo.
In queste due fasi il dibattito politico sul Mezzogiorno assume una dimensione straordinaria. Quando un governo va in crisi è la recriminazione sul Sud tradito ad avere spazio. Qui emerge che le responsabilità dei ritardi dello sviluppo sono sempre degli altri, mai, o poco, dei meridionali e della classe dirigente. Le accuse prevalgono sulla riflessione. I dati Svimez, che denunciano la crescita del dualismo Nord-Sud, nella loro crudeltà allarmano, ma non trovano adeguate risposte. Anche l’indignazione si spegne repentinamente. Come le analisi sul disagio che si dissolvono in un batter d’occhio. Quando poi nasce un nuovo governo, puntualmente la questione meridionale torna alla ribalta. Stavolta non come accusa per il non fatto, ma come speranza e promessa del fare per superare le difficoltà. E’ la fase della suggestione ad avere la meglio, con il presupposto del “si può fare” . “si deve fare”. Poi, però, nulla accade e come un cane che si morde la coda tutto torna come prima. Cambiano i governi, i linguaggi (Piano per il Sud, Masterplan, centralità della questione meridionale, ecc) ma quasi nulla, o poco, cambia nella realtà. Emanuele Felice, osservatore attento della questione meridionale, analizza nel suo ultimo saggio (“Perchè il Sud è rimasto indietro”) i motivi del divario Nord-Sud, ripercorrendo il cammino poco virtuoso delle differenze, soffermandosi, in particolare, sulle responsabilità delle classi dirigenti meridionali. Il tema, non nuovo, propone un interrogativo: c’è nel Mezzogiorno una classe dirigente degna di questo ruolo? O, al contrario, nel Mezzogiorno non esiste classe dirigente, ma solo fenomeni dal sapore antico che fanno riferimento al trasformismo, al clientelismo, all’assistenzialismo non produttivo? Una risposta, non esaustiva, viene dall’agire meridionale che si desume dalla narrazione di ciò che accade nel Sud.

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