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I CUMULI di immondizia che periodicamente invadono le città calabresi tanto da metterle in competizione con quelle campane che, almeno sul piano dell’immagine, detengono una sorta di primato mondiale, inducono a più di una riflessione. Perché, spendendo proporzionalmente gli stessi soldi e avendo le stesse leggi e gli stessi poteri, questo disastro ricorrente avviene nelle regioni del Sud e mai nel Centro-Nord? Perché dalle nostre parti si è dovuto ricorrere a continui commissariamenti che invece di sanare hanno ulteriormente aggravato la situazione? Intendiamoci, l’omologazione del paese al peggio è un processo inarrestabile da tempo, per cui almeno in alcuni campi (la corruzione, per esempio) dalle Alpi alla Sicilia abbiamo conquistato effettivamente l’unità nazionale. Sarebbe stato più utile e soddisfacente pervenire a un’omogeneità anche nella gestione di fondamentali servizi pubblici come, per restare al tema prima ricordato, la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti. Così non è, tanto che quello dell’immondizia è uno scandalo tutto o quasi meridionale. Lo è dal punto di vista dei modelli di gestione e dei risultati, lo è anche da quello della lentezza esasperante con la quale si introduce la raccolta differenziata, che interessa contemporaneamente le autorità pubbliche, che devono garantire la sua efficacia, e i cittadini, che la devono attuare. E lo è al punto che anche la spazzatura più indigesta, quella nociva, prodotta negli anni nelle regioni settentrionali è finita nelle nostre terre inquinando il sottosuolo in maniera e forme tutte da accertare. Il faccendiere di “Gomorra”, un magnifico Toni Servillo, che dopo aver acquistato un altro pezzo di terra del Casertano da destinare a discarica di rifiuti tossici, butta nell’immondizia la cassetta di pesche, che i proprietari gli hanno regalato, avvertendo il suo amico di stare alla larga “da questa porcheria”, è un’immagine da non dimenticare perché definisce plasticamente l’attentato permanente alla nostra salute. 

Dunque, perché? Probabilmente dobbiamo riconoscere che, al di là dei gridi di dolore e di rabbia quando come meridionali ci sentiamo sul banco degli imputati per la dissipazione di risorse pubbliche e la inadeguatezza talvolta assoluta dei servizi forniti alla collettività, qualche responsabilità ce l’abbiamo. E dovremmo assumercela fino in fondo non già per autoflaggellarci bensì per individuare i nostri errori e difetti e imboccare una strada nuova. 
 La faccenda purtroppo è esemplare di un modo di fare che chiama in causa non solo chi ha la responsabilità di gestire ma anche l’intera comunità che, una volta delegate funzioni e poteri con un voto, assiste silente allo scempio della cosa pubblica. Diciamocelo francamente: gli eletti non sono peggio degli elettori. Tutto sommato prevale un’idea molto approssimativa delle regole, dei diritti e dei doveri. Il senso della cosa pubblica, fatte lodevoli eccezioni, è abbastanza evanescente, e quando poi si esercita il voto (sempre meno, come si è visto nelle ultime tornate) raramente si esprime un giudizio sulla qualità amministrativa e politica delle persone e per lo più si preferisce puntare sul conoscente o parente che può essere eventualmente utile. I livelli di partecipazione sono bassi e la protesta riguarda difficilmente temi di valore generale e più spesso la difesa di interessi personali o corporativi. Teniamoci, quindi, l’immondizia sotto casa, i trasporti che servono a garantire qualche livello occupazionale piuttosto che una mobilità moderna delle persone e delle merci, servizi pubblici arretrati e inefficienti. Poi diremo che la colpa è dei Governi nazionali che hanno sviluppato politiche inadeguate o contrarie al Mezzogiorno e che il Nord non ci vuole bene. Tutto vero, sia chiaro, ma un piccolo esame di coscienza è sempre tardi per farlo. Abbiamo ricordato i cumuli di immondizia a mo’ di esempio di come vanno le cose e di come c’è una questione meridionale che è tutta nostra e che non possiamo scaricare sulle spalle di altri. Ma possiamo rimarcare anche un altro aspetto: un permissivismo abbastanza diffuso che considera lo Stato e la legalità come incidenti o orpelli di cui fare a meno quando non ci stanno comodi. Pensate, nei giorni scorsi in una clinica catanzarese si è svolta un’assemblea sindacale che ha ascoltato religiosamente un detenuto condannato per gravissimi reati in ogni grado di giudizio. Senza battere ciglio. Come un fatto ordinario. E nessuno, dai vertici sindacali ai lavoratori, che si sia posto la domanda: ma è normale tutto questo? Non servono i nomi e cognomi perché se ne parliamo lo facciamo per segnalare un modello culturale di comportamenti e azioni, che si esprime nelle forme e nei modi più vari e che è forse una delle cause principali, se non la prima, del blocco che tiene al palo le nostre comunità.
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