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Napoli, comincia oggi la nuova stagione. Questa mattina Gaetano Manfredi s’insedia a Palazzo San Giacomo. È il 25esimo sindaco della storia di Napoli. Gli amanti della Storia rievocano un altro Manfredi, l’ultimo con questo nome ad aver avuto un certo peso nell’Italia meridionale, ovvero quel Manfredi di Sicilia (Venosa 1232 – Benevento 1266), della leggendaria schiatta degli Hohenstaufen, figlio dell’imperatore Federico II di Svevia, caduto in combattimento nel Beneventano dopo che le truppe italiane lo avevano vigliaccamente abbandonato (al contrario delle milizie siciliane, tedesche e saracene che invece difesero strenuamente il loro re) e poi anche privato di degna sepoltura dalla cattiveria del vescovo di Cosenza Bartolomeo Pignatelli.

Un’importante pagina di Storia che il neosindaco, uomo di cultura, sicuramente conosce a menadito. Tornando alla cronaca e fatte, ovviamente, le debite proporzioni, con un pizzico d’ironia si può dire il “regno” di Manfredi da Nola dovrebbe avere una vita molto meno turbolenta (e di sicuro con un finale migliore). Gli odierni “angioini”, peraltro già serenamente sbaragliati alle urne, potranno al massimo far sentire la loro voce dagli scranni dell’opposizione e su qualche giornale ben disposto. Resta però il fatto che “l’era Manfredi”, come è stata ribattezza, è già sinonimo di “grande occasione”.

A giudizio della maggior parte degli osservatori accreditati, infatti, le premesse sono semplicemente eccezionali. Mai come questa volta Napoli potrà disporre di un mix di circostanze e contingenze favorevoli, una iniezione finanziaria senza precedenti, la fattiva vicinanza del governo nazionale (peraltro guidato dal miglior premier possibile), un clima generale decisamente collaborativo da parte di tutti i settori strategici della società, un primo cittadino serio, affidabile, competente e preparato, e una Giunta che (almeno sulla carta) dovrebbe essere alla sua altezza.

Insomma, per usare una metafora calcistica è come avere tutto a disposizione: un presidente danaroso e pronto a spendere, un allenatore vincente, una squadra di top player (o quasi), una tifoseria entusiasta (e priva di ultrà), lo sguardo benevolo dell’ambiente. Ecco, i presupposti per vincere (o almeno provarci) ci sono, ora però bisogna lavorare per riuscirci.

Duramente e a lungo. Il rischio di alzare troppo l’asticella delle aspettative è sempre alto. Anche perché Napoli, al contrario di quanto ripetono i più ingenui e quelli in cattiva fede, non è una città come le altre. E a dirlo sono innanzitutto le crude cifre della realtà: già prima della pandemia il 23% dei napoletani era sotto la soglia di povertà (la media italiana è del 12,6%).

La provincia napoletana è quella con il più alto numero di famiglie in uno stato di grave disagio economico (oltre il 10%). Inoltre, all’ombra del Vesuvio il tasso di occupazione femminile è del 25,6%, a Milano arriva al 64. E ancora: i quindicenni che non raggiungono i minimi di competenza in lettura-scrittura e in matematica sono il doppio della media italiana, i giovani che a 25 anni non hanno un diploma toccano il 23% (media italiana: 14%).

Le spese totali pro capite per le politiche sociali del Comune sono di 63,48 euro (Milano è al 306,74). E continuando il raffronto con la città meneghina: qui ci sono 50,8 autobus ogni 100mila abitanti (in realtà ne circola regolarmente meno della metà) mentre lì sono quasi 100 (e tutti in strada): qui la spesa pro-capite per il trasporto pubblico è di 147,88 euro, sulle rive del Naviglio è di 795,46.

Insomma, un ritardo che era già profondo ma negli ultimi decenni è diventato abissale (e un pensiero va doverosamente rivolto ai vari responsabili di questo straordinario exploit). In sintesi, per il regno di Manfredi I il nemico non si annida nei limpidi scopi dei nuovi angioini ma nelle persino più insidiose sabbie mobili disseminate nella grande palude dell’arretratezza e dell’invivibilità.

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